Coil: Alla Luce del Sole Nero

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Lo scorso 13 novembre ricorreva l’anniversario della morte di John Balance, fondatore e cantante dei Coil.
Sono passati dieci anni da quando, in una funesta mattina autunnale, un nero cielo stellato sostituì d’improvviso la homepage del sito ufficiale della Threshold House, e la citazione tratta dal Book of the Law di Aleister Crowleyevery man and every woman is a star” comparve come unico indizio.
Qualche giorno dopo, il 24 novembre, un’altra funesta ricorrenza: quattro anni fa ci lasciava anche Peter “Sleazy” Christopherson, l’altra metà dei Coil, deceduto in circostanze mai chiarite in Thailandia, dove risiedeva da alcuni anni.
I primi freddi autunnali sempre ci riportano alla memoria il lutto per la scomparsa di una delle entità più straordinarie ed influenti della musica elettronica d’ogni tempo. Nonostante vengano citate e tirate in ballo spesso a sproposito, talvolta anche con orripilanti cover che sicuramente hanno fatto rivoltare nelle rispettive tombe i due cari estinti, le creazioni musicali di Balance e Christopherson non hanno perso un briciolo del loro fascino sinistro, e rimangono un punto di riferimento per chiunque voglia tentare una via all’elettronica in grado di essere davvero provocante, nel vero senso della parola.
Coil non è mai stata una sigla legata ad un genere o ad una scena in particolare, facendo anzi della trasversalità il proprio marchio di fabbrica sin dagli esordi.

Se i clangori metallici e rituali del 12” di debutto How to Destroy Angels svelano inevitabilmente le originali radici d’area industrial, il primo album, il tetro Scatology, spinge ulteriormente l’acceleratore in quella direzione, risucchiando l’ascoltatore in un folle mondo fatto di batterie elettroniche martellanti, archi campionati utilizzati come seghe elettriche, tastiere dal sapore gotico e voci angoscianti.
Ogni canzone è incentrata su di un argomento diverso, spaziando dalla coprofilia alla blasfemia con l’approccio asettico di un archivista, arrivando a descrivere nelle note di copertina la strumentazione ed i riferimenti utilizzati per assemblare ciascuna di esse.
Il loro capolavoro degli anni ’80 Horse Rotorvator è un’opera dalle mille sfaccettature, capace di muoversi agilmente tra le danze cadenzate di Penetralia, in odore di primordiale techno pagana, l’inquietante turbine di campionamenti orchestrali e voci di Anal Staircase, il delirio orgiastico di Circles Of Mania, l’agghiacciante Blood From The Air, la funerea narrazione di The Golden Section, la celebre elegia funebre Ostia (The Death of Pasolini), e finanche una sepolcrale cover della Who By Fire di Leonard Cohen.
La finale The First Five Minutes After Death, con le sue tastiere che evocano ansia e smarrimento, pone il sigillo ad un concentrato di eros et thanatos in musica riuscito come pochi altri.
Sebbene seguito ed amato dal pubblico dark proprio per via del grande album appena citato, il duo britannico inizia subito dopo a distaccarsi da quel genere di atmosfere.

Tra raccolte di materiale inedito, come l’interessante Gold is the Metal with the Broadest Shoulders, remix e le prime ristampe su CD corposamente rivisitate, si deve attendere fino al 1991 per un album nuovo di zecca.
Il fantomatico The Dark Side of Love, che doveva uscire con il patrocinio di nessuno meno che Trent Reznor, rimane per sempre una voce di corridoio e nulla più. La sincera ammirazione da parte del leader dei Nine Inch Nails è comunque testimoniata dai remix a firma Coil apparsi su vari album del suo gruppo.
Il ciclone acid house travolge nel frattempo l’Inghilterra, contaminando anche diversi vecchi colleghi della scena industrial che ci si buttarono a capofitto, primi fra tutti Psychic TV.
I Coil si uniscono alle danze, ma a modo loro. Love’s Secret Domain abbandona definitivamente ogni retaggio industrial e decadente per tuffarsi nell’universo elettronico a 360°.
Su questa sottovalutata meraviglia compaiono sia i ritmi acid di Windowpane che le cavalcate IDM di Disco Hospital e Further Back and Faster, senza dimenticare lo splendido ambient di Dark River.
L’ingresso nella cultura rave avviene con tutta l’irruenza degna di due consumati provocatori: il titolo del disco è un chiaro riferimento all’LSD, The Snow non ha bisogno di troppe spiegazioni, mentre Windowpane parla di un modo di assorbire la celebre droga allucinogena attraverso le palpebre.
I riferimenti espliciti ai diversi tipi di sostanze non fa però di Balance e Christopherson dei semplici tossicomani intenti ad incensare il consumo sfrenato di droghe.

Lungo tutta la sua carriera, il duo britannico si è dedicato senza sosta ad un’esplorazione delle più remote regioni dell’esperienza, abbracciando prima ciò che dalle convenzioni e dalle norme sociali è ritenuto semplice perversione, come in Scatology, poi accogliendo la morte, la sua attesa e la sua paura con i più diversi stati d’animo, come in Horse Rotorvator, convogliando infine tutte queste pulsioni nella forma di rituale collettivo, dionisiaco e, perché no, orgiastico per eccellenza del tardo XX Secolo: il rave.
Anche l’omosessualità, ormai sdoganata quasi ovunque nel mondo occidentale, è negli anni ’80 ancora fonte di provocazione ad alto potenziale, ed i due londinesi, omosessuali dichiarati, frequentano attivamente la scena gay dell’epoca, dall’amico fraterno Marc Almond a registi e scrittori quali Derek Jarman e Clive Barker, per i quali realizzano anche colonne sonore cinematografiche (il celebre score rifiutato per il primo Hellraiser).
L’irrompere dell’AIDS cambia drasticamente la prospettiva, ben esplicata dal videoclip della cover di Tainted Love, rallentata e trasformata nel rantolo morente di un ragazzo affetto dalla malattia. I proventi del singolo in questione sono poi devoluti ad un’associazione di assistenza ai malati.
Gli anni ’90 vedono i Coil proseguire su questa linea, con lavori talvolta interlocutori di acid house, ambient e minimal, quali Born Again Pagans (che contiene l’onirica Protection), Worship the Glitch e Black Light District.

Caratteristica di questo periodo è l’assenza di John Balance alla voce, che preferisce rimanere dietro la quinte e far parlare i suoni.
Il ritorno ad una dimensione più familiare avviene alla fine del secolo con il limitatissimo Astral Disaster, che segna il ritorno alla forma canzone con la stupenda I Don’t Want to Be the One, e, subito dopo, con gli album gemelli Musick to Play in the Dark 1 e 2.
Questi due dischi in particolare, con le loro atmosfere notturne e lunari (“moon music” è la definizione che il gruppo da della propria musica in questo periodo), segnano il ritorno sulle scene in grande stile, con sonorità ripulite, minimali, limpide ed incisive, accompagnate dalla voce di un Balance carismatico come non mai.
Canzoni magnifiche come Paranoid Inlay convivono fianco a fianco alle lunghe escursioni di Red Birds Will Fly e Tiny Golden Books, in odore di Kosmische Musik anni ’70.
Alla nuova vena creativa in studio corrisponde, negli stessi anni, l’esordio dei Coil come live band.
Prima del 2000, infatti, si erano esibiti solo quattro volte e sempre in forme che esulavano dal concetto di performance o concerto tradizionale.
Chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo prima del fatidico 2004 sa quali forze fossero in grado di evocare dal palco, con un Balance scatenato e carismatico sostenuto dall’impeccabile professionalità di Christopherson e da ospiti illustri come Thighpaulsandra.
I loro concerti erano veri e propri rituali, scenografici ed ammalianti, dai quali non si poteva che uscire scossi nel profondo.
John Balance è purtroppo sempre più schiavo dell’alcol, e questa dipendenza gli è fatale in quello sciagurato giorno di novembre 2004, quando cade dal secondo piano della sua casa e batte la testa, per non risvegliarsi mai più.
La parabola dei Coil finisce quel giorno, all’apice della popolarità, dei consensi, dei tributi finalmente ricevuti da ogni parte.
L’ultimo capolavoro del duo vede la luce l’anno dopo nella forma del postumo The Ape of Naples, vero e proprio canto del cigno di solenne e crepuscolare bellezza. Nessuno potrà mai sostituirli.

Simone Valcauda

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