I-Robots: Musica, Passione e Daitarn 3

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Lo sapevi che Riley Reinhold (alias Triple R n.d.r.) prima di diventare producer ed aprire la Trapez e la Traum si occupava di giornalismo musicale ed intervistava Band e DJ/Producer ?

Gianluca Pandullo è una colonna della scena torinese/italiana.
Conosciuto nel mondo della Electronic Music come I-Robots ha attraversato tutte le fasi della Dance venendo a contatto con i mostri sacri di Detroit, collaborando con quelli italiani e provando un’infinita curiosità per qualsiasi suono ed artista fuori dall’ordinario.
Collezionista di vinili e robottoni giapponesi (Chogokin) al limite della malattia. Il segreto del suo successo va ricercato, oltre che nella passione, in un entusiasmo che conserva fin dalle scuole elementari.

Che ne dici di partire dall’inizio e raccontarci come Gianluca Pandullo è diventato I-Robots?
Il nome I-Robots nasce dalla passione per i cartoni animati giapponesi legati alla robotica, che hanno alimentato la mia fantasia quando ero piccolo. Immaginavo un futuro in cui i robot al servizio degli uomini difendevano il pianeta. Colleziono action figures originali di quei cartoni che guardavo nell’infanzia, e allo stesso tempo dischi di Musica Elettronica partendo dagli anni ’70 e soprattutto Synth Electronic e Disco. Quando nel 1996 si iniziò a guardare di nuovo agli ’80 allora andai a riprendere i vinili che compravo all’epoca, un suono a cui ero rimasto molto affezionato, parliamo di N.O.I.A., Klein & M.B.O., Charlie, Alexander Robotnick e tutte quelle altre cose che infilai nella compilation proposta alla Irma nel 2002: Various – I-Robots: Italo Electro Disco Underground Classics; progetto che nacque proprio dal mio approccio da collezionista al djing.
Negli anni ’80 era un fiorire di musica fatta con le nuove drum machines ed i synth; ex membri di gruppi post-punk e new wave “frustrati” di non aver ottenuto gli sperati riconoscimenti presero a dedicarsi alla Disco. A questo punto gli elementi del concept c’erano tutti: le macchine al “servizio” degli esseri umani, gli Italiani e la musica. Ecco quindi gli “Italian Robots” abbreviato I-Robots.
Purtroppo la sua uscita fu posticipata di ben 2 anni e venne pubblicata solo nel 2004, ma nel frattempo mi venne la voglia di produrre anch’io qualcosa perciò mantenni il nome, e radunai un team di torinesi con cui realizzai la cover di Spacer Woman. Tra loro c’era Marco Palmieri (che insieme a Terry-Ann Frencken formavano gli Und su Trapez) con cui ho prodotto successivamente l’album “Laws Of Robotics” e svariati remix; continuo ancora a lavorarci anche se non è presente come compositore perché non ha più questo interesse, ma resta un valido aiuto per mettere giù le idee che ho in testa, almeno le prime bozze quando magari inserisco citazioni del passato, perché il collezionista viene fuori anche in studio. Ecco anche quando propongo un nuovo suono la “old school” è sempre presente!

In ogni aspetto della tua vita appare costantemente questa figura. Quest’ultimo triplo cd “We are Opilec…Vol II” è, se vogliamo, un’opera filologica dalla disco a Detroit, di cui mi ha molto stupito la presenza di Matthias Schaffhäuser: non è un nome che conoscono tutti, come lo hai trovato?
Matthias è arrivato in un modo molto particolare: sono stato contattato da un amico americano di Scott Ryser (The Units), il quale mi propose il demo del suo album. Quando lo ascoltai, restai colpito dalla cover di “Dreams” di Stevie Nicks (Fleetwood Mac), in stile Hercules & Love Affair, così gli chiesi più informazioni sul progetto, chiamato Fanatico: mi spiegò che a farne parte erano lui, Jorge Socarràs ed appunto Matthias Schaffhäuser. Quindi decisi di lavorarci sopra, e nel mentre mi ascoltai anche tutto il catalogo del Dj tedesco, di cui m’incuriosirono soprattutto tre brani tra i quali Gelbgefühl, che ha l’esatto mood delle cose che si sentivano nelle cassettine di Daniele Baldelli: quel suono Cosmic, anzi più precisamente “Kosmische“, che riprendeva sia l’atmosfera spaziale ma anche, nella sua interpretazione, l’universalità dei generi musicali come in un caleidoscopio. Tra parentesi è stato grazie ai dj set di Baldelli se ho conosciuto artisti come Brian Eno, Moebius, Klaus Schulze e J.M. Jarre.
Alla fine comunque ci siamo accordati per l’editing del brano, a cui ho dato un sapore live ’70 aggiungendo percussioni africane originali, nello stile delle sessions tedesche d’epoca, in quato appassionato anche della musica tedesca dei Can dei Gury Guru e dei Neu!

Quando hai iniziato a fare incetta di dischi?
Nei primi anni ’80, mi ricordo le feste coi compagni con cui si gareggiava per chi aveva lo stereo più hi-tech. Compravamo i 45 giri: Enola Gay, Fade To Grey… Conoscendo oggi le diverse definizioni di stile, direi che quello che mi ha toccato subito è stato il Synth Pop; Registravamo i mixati che passavano di notte per radio e volevamo ricreare la discoteca in casa perché non avevamo ancora l’età per andarci ma dall’83/4 ho cominciato a frequentare i locali Italo.
Lo guardavi Disco Ring sulla Rai?

Sì, ma anche “Pop Corn” programma che seguivamo ai tempi, dedicato alla Disco Music; ricordo il loro gruppo di ballerini la “Crazy Gang” che più tardi scoprii che furono prodotti da Claudio Simonetti dei Goblin lo stesso che ha prodotto progetti come Easy Going, Capricon, Vivien Vee e molti altri…
Il mio terzo step degli anni ’80 è stato l’Hip Hop: ero rimasto affascinato da come questi artisti si servissero dei campionatori per creare i loro pezzi riproponendo i James Brown & “family” e Donald Byrd. Verso la fine del decennio arrivarono finalmente l’House di Chicago e la Techno di Detroit. Mi ricordo che quando uscì il primo Rhythim Is Rhythim su Transmat lo comprai da Rock & Folk quì a Torino, dove validissimo ed unico commesso era Roberto Spallacci di Club 2 Club. Acquistavo Public Enemy, Boogie Down Production, Phuture e Derrick May. Allo stesso tempo compravo tutto ciò che era Rare Groove o che veniva ristampato e che qualche anno dopo avrebbe forgiato il movimento Acid Jazz. Era il 1987/8.
Negli anni ’90 l’Hip Hop entra con forza anche in Italia. I produttori “Black” di quel periodo avevano un modo fantastico di trattare il Jazz ed il Soul, che non è più successo ed nfatti continuo a collezionarlo.

Ma come sei riuscito a trasformare questa passione in un vero mestiere?
Misi i dischi in pubblico per la prima volta nell’84 subito dopo la fine dell’epoca “Afro/Cosmic”. Come tecnica ero già abbastanza bravo, ma solo dopo un po’ di tempo realizzai cosa volesse dire veramente la “tecnica” per un dj al di fuori di quella istintiva: l’uso naturale del mixer, la messa in battuta, la suddivisione delle metriche dei brani etc… sono tutte cose che impari dopo anni ed io ho imparato il mestiere facendolo.
Qual è il tuo rapporto con Torino?

Torino è sempre stata una città “rock” e quindi la musica è stata spinta brillantemente a livello culturale come a Bologna e a Firenze.
I passaggi sono stati molteplici ed i movimenti giovanili ci sono stati tutti: New Wave, Dark, Mod, “Sballoni“… Il pubblico House era uno dei più interessanti d’Italia, non legato al business come nella riviera romagnola. Qui c’era lo Studio 2 dove proponevano lo stesso immaginario sonoro ed il “trend” delle serate Londinesi dal Rap all’Acid House ed io ero uno di quelli che frequentava i clubs esclusivamente per la musica. Parliamo del sempre del 1987/8.
Facevo diverse serate, ma è stata dura far parte del movimento underground e rappresentarlo fino a quando non ho preso una residenza importante all’A.E.I.O.U. un discobar molto frequentato a quei tempi: al venerdì mettevo Rare Grooves & Acid Jazz ed il sabato Funk e Hip Hop. Da lì ho incominciato a lavorare molto. Se verso lafine degli anni ’80 l’House Music e la Detroit Techno erano il mio interesse maggiore assieme al Rap, nel ’92 ho preferito la Black Music interamente in chiave Jazz, Hip Hop & Rare Groove.
Tornai sui miei passi quando venne fuori l’House jazzata francese di Saint Germain che apprezzai immediatamente. A questo punto proponevo di tutto, e variavo il set a seconda della tipologia del locale o delle serate. Per anni sono stato il DJ della Torino “bene” anche perchè all’inizion non fui mai stato digerito troppo dal giro alternativo/underground. Con l’Acid jazz si creò finalmente anche un pubblico alternativo legato a queste sonorità e successivamente attraverso le produzione di bands come gli U.F.O. si passò al Drum’n’Bass di Roni Size ed a proposte jazzy electronic tanto per dare un’idea. Tra l’altro portavo in città vari artisti ed anche le band che Nicola Conte produceva in quel di Bari. Fui anche uno dei primi DJ a dedicarsi al Drum’n’Bass; organizzai parties con top names quali Photek e Grooverider.
Nel mio essere così affamato di musica non potei farmi sfuggire la prima Tribal Techno: amante di ogni influenza Afro rimango folgorato dai DJ/Producers che portano nella Techno i riferimenti etnici vedi Jeff Mills. Da questo momento in avanti il mio stile è rimasto House e Techno. L’unica House che non mi travolge completamente è la Garage e la Gospel chiamata “Soulful” ma ovviamente dipende dalle produzioni….

A proposito di house, nella tua compilation spicca il nome di Claudio Coccoluto. Come lo hai coinvolto nel progetto?
Coccoluto come Francesco Farfa ed Alex Neri hanno sempre avuto molto rispetto per quello che proponevo nonostante loro fossero molto più popolari. Con Claudio ci siamo incrociati un po’ di volte, poi dopo il Jazz Re:found Festival 2012 dove gli avevo dato qualche promo, abbiamo messo in piedi questa collaborazione, anche perchè lui vuol tornare sul mercato discografico in un certo modo. Dopo diversi ascolti ho trovato Soft And Care (The Machine), un brano davvero “malato” che mi riporta alle ESG ai Liquid Liquid, un po’ Wave e contemporaneamente House. Claudio è uno che la sa lunga!
Ho sempre voluto tenere dentro gli Italiani ed infatti da anni collaboro con Baldelli, Federico Gandin e finalmente l’amico di “vecchia” data Flavio Vecchi mi ha regalato gli Stupid Set band post-punk bolognese anni 80 facente parte anch’essa del team Electronic Disco-Wave di Italian Records assieme a Kirlian Camera, Gaz Nevada e N.O.I.A.
Qual è la soddisfazione più grande che ti sei preso con “We are Opilec…Vol II”?

Sicuramente l’essere riuscito a far fare a Virgo 4 la cover di Dirty Talk di Klein & M.B.O. Un brano simbolo della Italo Disco, genere alla base della Chicago House, riproposto da uno dei nomi più importanti del circuito. Lo stesso Virgo 4 ha ammesso che Dirty Talk gli ha cambiato la vita e lo si sentiva in radio a Chicago! Tu non hai idea di cosa ha in cantina Virgo 4! Altro che retrospettiva su Rush Hour, ma niente da fare: non le molla! Molti vogliono le sue tracce ma lui niente! Ci pensa e ci ripensa….Questo rende ancora più prezioso il brano di cui sopra, nel quale ad un certo punto cita Jingo di Candido, un classico brano della Salsoul Records, che va a chiudere il cerchio!
Come hai deciso di affrontare l’avventura della discografia?
La Opilec Music nasce a fine 2007. Era appena uscito il remix della nostra Frau realizzato da Boys Noize, ed avevo finito l’album dedicato ad Asimov che affidai inizialmente ad una label belga. Purtroppo l’etichetta non riuscì ad avere la distribuzione sperata, di conseguenza, stanco di aspettare, decisi di far da me. Il nome Opilec deriva dal racconto di Josef Capèk che nel 1917 trattò per primo l’argomento robot nella sua appunto “Opilec” opera letteraria.

Da discografico come ti muovi per individuare la musica del futuro?

Pur con tutti i limiti di una piccola label indipendente che mi impedisce di lavorare con i top players del settore, mi arrivano proposte per interessanti progetti. Le nostre release sono discretamente apprezzate, perciò ho avuto la fortuna che giganti della Techno come Los Hermanos e Orlando Voorn si siano proposti da soli.
Gandin, aveva addirittura i propri branii praticamente quasi finiti nel computer, e nesuno era mai riuscito a farglieli terminare. Quando andai da lui riuscimmo finalmente a terminare il progetto, quindi ho pubblicato l’album Legion Of The Los Dreams e succesivamente ho licenziato i suoi brani a Derrick May per la sua compilation per il Giappone e Movement Torino Music Festival per le loro compilation che ho curato personalmente.
Prossimamente avremo recuperi dagli anni ’80 italiani e Dub Techno ungherese fighissima! Certo dopo Maurizio, Basic Channel ed Echospace la Dub-Tech non ha più molto da dire, ma il sound resta sempre stilosissimo!
L’ascolto comunque è la base di tutto; prendi Danny Ocean, ha un album che è una bomba e lo voleva pure Carl Craig, ma evidentemente anche lui ha dovuto stringere i cordoni della borsa! L’ultima licenza che ho preso è Infinity Game One che uscirà con il mio re-edit ed il rmx inedito dello stesso Voorn.
Sei passato dal prendere i dischi ad acquistare direttamente i produttori! Come vedi il mercato, ci credi a questo ritorno del vinile?

Guarda di base si stampano solo 300 copie a release. Ne ho fatte 700 solo per The Units col rmx di Todd Terje che è andato sold out due volte, ma mi guardo bene dal farlo uscire una terza perché non ne venderei di più! Molti dischi anche di prestigio per nome e produzione non hanno venduto quantità notevoli. Quello che credo è che se anche la menano in giro col ritorno del vinile, la mia risposta è: no, il vinile non tornerà. Stiamo vivendo giusto gli ultimi colpi legati alla presenza di pochi appassionati dell’oggetto fisico. La massa dei DJ usa laptop e controller stop! Io stesso, pur avendo 30 mila vinili, oggi per suonare preferisco il cd come strumento professionale. Ultimamente sto anche stilando una lista di tutte le etichette da ripassarmi in digitale.
Possono dirmi quello che vogliono ma il progresso non si può fermare!
Un’ultima domanda secca: chi vincerebbe in uno scontro tra Daitarn 3, Voltron e Mazinga Z?
Daitarn 3
senza dubbio!

Federico Spadavecchia

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