Daniele e Giovanni si sono trasferiti a Berlino da qualche anno. Come tanti ragazzi hanno scelto di vivere nella Capitale tedesca per poter provare a realizzare le proprie ambizioni artistiche, e per riuscirci si fanno letteralmente in quattro fornendo servizi di mastering presso il loro studio, facendo i tecnici audio e video, organizzando workshop per producer e naturalmente suonando. Il loro progetto si chiama Dadub ed è edito dalla Stroboscopic Artefacts, label simbolo del talento italiano all’estero.
Li abbiamo incontrati un pomeriggio durante la settimana della Club Transmediale a Kreuzberg al Where is Jesus Temporary Bar, dove poco prima di un workshop tenuto da Daniele scambiamo due chiacchere davvero interessanti.
Ciao ragazzi benvenuti su Frequenies! Che ne dite di raccontarci come sono nati i Dadub?
Daniele: Inizialmente era un progetto che avevo cominciato nel 2008, si trattava di esperimenti midtempo ed ambient e dopo una release sull’italiana A Quiet Bump records venni a Berlino dove incontrai Giovanni. Era la fine del 2009. Grazie a lui e alla collaborazione con Stroboscopic Artefacts si è strutturato un progetto vero e proprio che abbiamo deciso di portare avanti mantenendo il nome originario.
Un momento fondamentale della vostra carriera è stato appunto l’incontro con Lucy e la sua etichetta, come vi siete incontrati? Vi conoscevate già?
Daniele: Sì, io lo conoscevo già ma negli ultimi anni ci eravamo un pò persi di vista salvo poi ritrovarsi a Berlino. All’epoca Stroboscopic Artefacts era nata da appena due settimane ed io ero venuto nella capitale tedesca con l’idea di lavorare nel campo delle produzioni discografiche, perciò si decise di fare parte del cammino insieme. In seguito con l’arrivo di Giovanni il progetto era al completo e pronto per nuovi obiettivi.
Qual è il vostro ruolo all’interno della label?
Daniele: Noi sostanzialmente ci occupiamo della post produzione delle release. C’è un continuo scambio di know how e idee su come concepire un suono o una produzione. Anche per questo quando si pensa al sound c’è un collegamento con il nostro percorso tecnico ma anche al nostro modo di sviluppare ragionamenti.
A proposito che formazione avete? Avete studiato da produttori o questa è una passione che avete sviluppato a parte?
Daniele: Io sono laureato in Economia ed ho fatto un piccolo corso a Roma su produzione e sintesi, mentre per la post produzione ed il mastering sono autodidatta.
Giovanni: Io ho preso una laurea in Scienze della Comunicazione ma da quando avevo 18 anni uso il computer per fare musica. Non ho frequentato scuole specializzate ma ho letto diverse cose sugli argomenti che mi interessavano soprattutto su Internet.
Parliamo un po’ di Berlino: è davvero il Paese dei Balocchi per chi vuole lavorare nell’arte?
Giovanni: Assolutamente no, questa non è una città ricca, anzi è forse la più povera della Germania. Se tanti stranieri si trasferiscono qui è anche per questo motivo: essendo una città a basso reddito gli affitti sono economici e fino a qualche anno fà era abbastanza semplice ottenere il sussidio di disoccupazione. Tanti Italiani venivano su contando sul fatto che trovare lavoro era facile e che la vita costava poco. Diciamo che Berlino è un’ottima base per vivere e produrre ma non lo è per vendere il proprio lavoro se ti interessa fare l’artista. Per quanto riguarda la musica ci sono molti club ma i compensi che puoi prendere come Dj sono più bassi rispetto a quelli che potresti guadagnare in altre città magari più piccole in cui l’elettronica non è famosa o spinta come qua.
Daniele: In realtà poi c’è anche un altro discorso legato al fatto che il mercato del lavoro in Germania non ha barriere particolari o è stantio come in Italia, dove per poterti mettere in concorrenza con qualcun altro devi avere le spalle coperte da un patrimonio o da garanzie veramente assurde. Qui se metti in pratica un’idea e ti metti in regola con lo Stato hai la possibilità di provarci perché comunque il basso costo della vita unito ad una fiscalità non oppressiva ti permettono di vivere tranquillamente anche senza avere grandi idee. Questa però è la precondizione, non è detto che automaticamente le cose poi siano facili.
Vista da fuori, qual è la prima cosa che cambiereste in Italia?
Giovanni: Se dovessi sceglierne una direi l’essere pagati quando si lavora. Alla fine dei conti se ho lasciato l’Italia è perché ho provato a lavorare anche in situazioni di alto livello, progetti dove giravano decine di migliaia di Euro, in cui mi veniva chiesto di accettare di lavorare in nero senza contratto perché “tanto ne troviamo altri centomila come te”, in cui mi sono state rubate idee, successivamente sfruttate per guadagnare molti soldi, per ricavare quanto? 500 miseri Euro pagati con mesi di ritardo. Sono arrivato a Berlino e mi ha fatto impressione, la prima volta che ho lavorato, essere chiamato dopo una settimana perché dovevo essere pagato e gli servivano i miei dati.
Commovente, quindi insomma anche se doveste immaginare una vita fuori dalla musica non tornereste in Italia giusto?
Giovanni: Mi verrebbe da dire manco per il cazzo, ma si può scrivere?
Certo che si può, non siamo mica in televisione
Giovanni: Sia a livello politico che di mentalità l’Italia è devastata da anni di prese per il culo. Negli ultimi vent’anni poi abbiamo davvero toccato il fondo. Peggio di così non so se si può andare.
L’Italia è affetta da un’inguaribile esterofilia specie quando si parla di clubbing, per cui per essere considerati bisogna prima sfondare al di là dei confini nazionali. Quando vi esibite in patria siete visti come delle star internazionali o come due ragazzi italiani come tanti che fanno musica strana?
Daniele: In Italia abbiamo molti fan ma poco seguito nel ramo più club oriented.
Giovanni: Dovevamo suonare per la prima volta insieme come Dadub al festival Flussi di Avellino lo scorso settembre, e purtroppo non siamo riusciti ad esibirci perché quella serata per cause a noi ignote, ma sicuramente differenti da quelle ufficiali, è stata in pratica boicottata dalle autorità locali. Verso le 19.30 sono arrivati dapprima i Carabinieri, poi la Polizia stradale, quindi la Forestale, l’Asl, sono andati a prendere a casa l’ispettore del lavoro, ed infine è intervenuta la Guardia di Finanza.
Immagino che questo dispiegamento di forze servisse per salvarvi da migliaia di groupies impazzite…
Giovanni: Non gli hanno fatto aprire il bar eppure quasi 800 persone sono rimaste lì fino alle 3 di notte senza una goccia d’alcol. Alla fine c’erano Luomo ed Alex Smoke, prima che quest’ultimo finisse lo show, c’è stata la minaccia di sgombero da parte delle forze dell’ordine così noi, che dovevamo esibirci dopo di lui, siam rimasti tagliati.
Dopo quell’avventura sull’Italia ci ho messo un po’ una croce sopra, poi se ci chiamassero vedremo, però fosse per me eviterei volentieri, anche perché proprio a causa dell’esterofilia fino a quando i Dadub non saranno ‘sti geni strafighi dell’universo non ci cagherà nessuno in Italia perché non facciamo la musichetta facile con la cassa dritta che riescono a ballare le fighette col Martini in mano. A me di andare a suonare in una discoteca dove la gente sta lì tanto per farsi vedere e per rimorchiare le tipe fregandosene un cazzo della musica…
Che bevono un Gin Tonic come se fosse una bella storia, cantavano gli 883…
Giovanni: Esatto eheh quella è la situazione! Ci sono le situazioni fighe però probabilmente non siamo adatti al tipo di sensibilità che c’è in Italia.
Daniele: Forse parteciperemo ad un mini festival bass culture nel senso più ampio del termine.
You Are Eternity è il vostro primo album, un disco ricco di influenze diverse fra loro. Volete raccontarci com’è nato? Qual è il concept?
Giovanni: Non siamo partiti da un concept e poi abbiamo creato le tracce iniziando appunto da un’idea astratta. Il processo è consistito nell’accumulare materiale ed arricchirlo con il nostro vissuto quotidiano degli ultimi due, tre anni. Una volta selezionate le tracce per l’album le abbiamo messe sulla timeline per farne il montaggio.
Effettivamente è un disco molto cinematografico con un forte impatto visivo…
Daniele: Un piccolo inciso su questo aspetto: abbiamo speso moltissimo tempo per capire come l’intensità potesse colpire; abbiamo voluto evitare la solita narrativa inizio-climax-fine. Penso quindi che questo effetto sia dovuto ad un gioco d’intensità.
Giovanni: Nelle nostre canzoni gli ambienti e le atmosfere non sono solo un riempimento anzi, alle volte sono persino più importanti del beat. Quello che ci ha portato a comporre queste tracce non è definibile come un qualcosa di materiale. Per me la musica è un livello della vita che mi permette di andare oltre a tutta la merda quotidiana, non un modo per fare soldi o un hobby. Grazie alla musica attingo ad energie che vanno oltre a questo tempo e questo luogo. I titoli rispecchiano questo lato di noi. Certo commercialmente è un po’ un suicidio perché non è un genere accessibile e facilmente riconoscibile. Alla fine però non accetto compromessi: voglio fare qualcosa che faccia bene alla scena e a chi l’ascolta, per campare ho lo studio di mastering! Non avere le palle di andare oltre lo scontato alla lunga uccide tutto il movimento.
Nell’album ci sono tre collaborazioni ognuna delle quali con appunto una scena differente (Edit Select, King Cannibal, Fabio Perletta), come le avete selezionate?
Daniele: Fabio è un mio carissimo amico da anni ed uno degli artisti ambient che più ammiro e che mi ha influenzato tantissimo nei suoni stessi che produco. Anche con Tony Scott/Edit Select siamo amici, ci siamo incontrati al Melt! un paio di anni fà ed abbiamo sentito subito di essere in sintonia.
Giovanni: King Cannibal per me era un po’ un idolo. Quando decise di trasferirsi a Berlino ed era in cerca di uno studio provai a scrivergli dicendogli che da noi c’erano ancora spazi in affitto e che mi avrebbe fatto molto piacere conoscerlo. Dylan ha accettato e ci siamo trovati, poi durante la produzione del disco gli abbiamo chiesto di fare un pezzo insieme e lui ha risposto sì. Tra l’altro questa probabilmente è stata l‘ultima traccia a nome King Cannibal perché ora sta sviluppando un album con un progetto legato alla nuova label del Fabric.
Per quanto al liveset come siete organizzati?
Daniele: Il liveset è basato su Ableton Live aprendo i progetti e riarrangiandoli live in maniera del tutto improvvisata.
Giovanni: Per me la performance live ha senso se c’è uno scambio con le persone, se sento che c’è un’energia che parte da me va al pubblico e torna indietro.
Che significato ha oggi fare Techno?
Giovanni: Prima di arrivare a Berlino non lo sapevo bene nemmeno io, poi una volta qui ho iniziato a frequentare i club e ho sentito che c’era un’energia che non avevo mai avvertito nelle serate di altri generi musicali. Un tipo di energia che parte dal livello fisico, come un moderno rito voodoo in cui il corpo e la mente delle persone si sincronizzano su un battito unico. Se hai davanti 3000 ballerini che si muovono per lo stesso impulso come fossero una cosa sola è impressionante. C’è un continuo scambio di feedback tra performer e pubblico che va oltre ogni logica commerciale o edonistica toccando delle corde molto profonde dell’anima umana.
Chiudiamo con la domanda che nessuno sopporta, i progetti futuri:
Giovanni: Intanto presenteremo il disco con un live al Berghain e poi per la fine del 2013 usciranno dei remix per Fausten (Combat rec.) ed altre collaborazioni con Edit Select. Abbiamo inoltre cambiato agenzia di booking quindi vedremo cosa ci porterà. Prima eravamo con un’agenzia tedesca di techno classica ed il progetto, per via della ritmica non sempre dritta, era considerato limitato, mentre ora lavorando con degli inglesi che non sono legati alla techno più autoreferenziale.
Quel tipo di techno ha avuto il suo picco un paio d’anni fà ed ora deve comprendere che la cassa in 4 è solo un canovaccio, non è quella la cosa importante. Se i produttori e ciò che vi ruota intorno non comprenderanno la situazione faranno ripiombare la scena a terra, ed il successo attuale del Berghain può darsi che nel giro di 4 anni non sia più come adesso.
Federico Spadavecchia