La voce d’America dei Caberet Voltaire racconta di un viaggio nella paranoia

Il nuovo teatro dadaista della postmodernità

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Data la recente scomparsa di Richard H. Kirk, trattiamo uno dei dischi fondamentali del movimento industrial inglese della prima metà degli anni ’80.
The Voice of America dei Cabaret Voltaire è la nuova rappresentazione teatrale in chiave dadaista della postmodernità industriale, e dello spleen desolante metropolitano di esistenze solitarie fra carcasse arrugginite di vecchie fabbriche e condomini di periferia in mezzo al nulla.
La band adotta la propria ragione sociale dal celebre locale di Zurigo che ha visto la nascita del movimento dadaista nel lontano 1916, ad opera di un manipolo di artisti antiborghesi quivi riuniti: Hugo Ball come fondatore e Tristan Tzara autore del relativo manifesto.
L’incontro invece tra i tre studenti appassionati di punk e di elettronica avviene a Sheffield: sono Stephen Mallinder, Chris Watson e Richard H. Kirk.
Ed è proprio questa città che ha costituito l’Heimat del loro sound.
Dominata da mostruose acciaierie e da un panorama urbano desolante dove erano ancora ben visibili i segni lasciati dalle bombe della seconda guerra mondiale; luogo dove la disoccupazione era alle stelle e con essa il disagio di una larga fascia della popolazione giovanile.
Dopo una serie di demo nei quali l’elettronica viene mescolata ad elementi punk e funk, dopo il singolo Nag Nag Nag ed il loro capolavoro Mix-Up nonchè l’ep Three Mantras, nel 1980 rilasciano The Voice of America, album che li consacra definitivamente fra i protagonisti della scena industrial britannica con Throbbing Gristle e Clock Dva.
Tale release mostra un suono più “pulito” e strutturato rispetto ai lavori precedenti ed è il compimento dell’arte di questi autori, figli dell’elettronica dei Kraftwerk come delle sferzate di violenza urbana dei Suicide ed anche delle spirali circonvolute dei Chrome.
I CV hanno avuto la genialità di rappresentare l’alienazione dell’individuo nelle metropoli, la mancanza di prospettive, l’angoscia generata dai cupi paesaggi, la filosofia del caos, la noia esistenziale così ben espressa da quello scritto che è “La Nausea”, mescolando l’inquietudine da catastrofe incombente che entra nella psiche umana con quel distacco ironico che è proprio dei dadaisti. È un attacco al capitalismo fonte di ogni sofferenza e d’ingiustizia con quella verve che troviamo in certe opere di Marcel Duchamp o nella lucida follia degli spettacoli di Hugo Ball.
Prima di tutto un’occhiata alla copertina: è la traduzione in arte visiva di tutta la loro poiesis cioè l’incontro fra le istanze dell’avanguardia storica del primo novecento e l’estetica punk del do-it-yourself. Si tratta di un collage in pieno stile dadà di immagini in bianco e nero concepito con spezzoni di foto prese dalla realtà e parole riportate con la macchina da scrivere.
Il disco inizia con la title track che è l’intercettazione del parlato di un poliziotto che fornisce indicazioni ad una squadra antisommossa per poi attaccare immediatamente con l’algida Damage Is Done, costruita su un basso pesante di stampo dub, battiti ripetitivi di drum machine ed una chitarra glaciale che disegna con la precisione di un bisturi suoni angoscianti. Su tutto si instaura il cantato innaturale e paranoico di Mallinder.
Partially Submerged è inquietante: brano che rimanda ai brividi dei Throbbing Gristle mediante un oscuro mantra di dissonanze free jazz e nastri in loop accelerati e rallentati.
Kneel of the Boss pare un momento di distensione dopo l’ansia del precedente: è un melodico synth pop di quelli che creano un gradevole stato di trance, grazie alle sue trame sintetiche coadiuvate da sax e batteria minimale.
Premonition è una lama nel buio, è l’electro kraftwerkiana precipitata in un gorgo di affanno, la cui scaturigine risiede nell’annichilimento dell’essere all’ombra di plumbee desolazioni cittadine, mentre una voce filtrata declama un oracolo a guisa di predicatore post moderno.
This is Entertainment è con i suoi ritmi secchi e rimbalzanti di elettronica, un funky psichedelico dilatato ove di volta in volta il cantato si alterna a ondate di ipnosi elettroacustica. Incontro fra Depeche Mode e Funkadelic già sull’autostrada del terzo millennio.
If The Shadow Could March? è un recupero dei vecchi demo e risale al 1974: è un intermezzo di drones in ambito casalingo nel suo andirivieni di vicinanze e lontananze in un grigio sfondo sonoro.
Stay Out of It è un refrain ripetuto e reiterato costruito su chitarra e tastiera di impronta psichedelica sixties, dalle trame oblique e oniriche.
Obsession è, a partire dal titolo stesso, un viaggio di ossessiva paranoia fra le pulsazioni di un basso funky, le chitarre glaciali ed i ghirigori elettronici che si rincorrono, mentre si ode
un delirio “one-one-obsession”. Brano che è forse il più plumbeo del disco, quello che evoca meglio i panorami del degrado che circonda loro.
News from Nowhere è un collage di voci e rumori di sirene trovati per caso in un turbinio cacofonico e dissonante, dettato da sordi colpi di batteria e svisate di sax.
Message Received, introdotta da staffilate di synth, sono i Joy Division calati in convulsioni industrial ed è la degna chiusura di questa opera fondamentale.

Marco Fanciulli