Mixare nell’era dell’all you can hear

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1972

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare un breve estratto di un mixato di Francis Grasso del 1971 al Sanctuary di New York.
La registrazione è terribile paragonata ai nostri standard audio odierni, ma ha il pregio di far sentire anche le reazioni del pubblico. I passaggi fra i vari pezzi praticamente non si sentono. La grandezza di Grasso era quella di saper cogliere i momenti migliori dei brani che passava nonostante le limitazioni tecniche del tempo.

Il classico SL-1200 della Technics venne introdotto sul mercato solo nel 1972 e Rosie, il primo vero prototipo di mixer, venne creato per lui da Alex Rosner nel 1971.
Rosner era un tecnico del suono di origine polacca che si trasferì a New York con la famiglia dopo che furono scampati all’Olocausto nazista. Si appassionò all’ingegneria audio e in breve divenne un riferimento della vita notturna newyorkese realizzando gli impianti audio per club famosi come il Loft, Il Gallery e molti altri. L’idea del mixer gli venne per implementare le già strabilianti doti di Grasso quando suonava all’Heaven, altro club newyorkese, dandogli la possibilità di creare meno interruzioni fra i vari brani suonati nei suoi set. Rosie era stato sviluppato modificando un mixer radiofonico della Bozak, allora leader del settore, e divenne il punto di partenza del CMA 10-2DL, il primo mixer professionale di serie costruito appunto dalla Bozak con l’aiuto di Rosner stesso.

A oltre 50 anni da questa fondamentale invenzione, sono successe tantissime cose a livello tecnico che hanno cambiato il mondo del djing, ma fino al 1992, anno di introduzione del primo CDJ da parte della Pioneer, il rapporto fra dj e musica era legato al vinile.
L’avvento del CD nel mondo del djing non solo ha cambiato le modalità del rapporto fisico tra manualità e prodotto musicale, ma ha anche introdotto alcune funzionalità che con il tempo sono diventate centrali nell’evoluzione del djing stesso. La prima opzione fondamentale è stata quella di poter suonare propri brani prima di farli uscire ufficialmente. In origine si dovevano fare dei dubplates, nel caso del vinile, oppure bisognava attendere l’uscita ufficiale, nel caso del CD. Suonare CD-R o CD-RW invece è stato fondamentale per permettere ai dj di testare i loro brani dal vivo prima di decidere di farli uscire o meno oppure suonare delle edit di brani esistenti aggiungendo originalità ai dj set.
C’era poi la possibilità di fare loop e reverse all’interno dei brani e successivamente, con l’introduzione delle sound card e delle chiavette USB nei modelli di CDJ dal 2000 in poi, è stato possibile inserire editare i brani in tempo reale tramite funzioni come gli Hot Cue.
In breve il djing si è trasformato da sola arte del beatmatching ovvero del mettere a tempo i dischi, a una performance più creativa. Finalmente il dj poteva svincolarsi (seppur parzialmente) dalla tecnica e dedicarsi principlamente alla creazione di un flow musicale appassionante. Un’ ulteriore svolta ci fu con l’introduzione di Serato e Traktor ovvero fare una serata conservando i propri file non più in un CD o in una USB, ma in un portatile. Con Traktor tutto è nel software stesso del computer, mentre Serato Live si basa su una tecnologia innovativa in cui i vinili, su cui è registrato un timecode, fungono da interfaccia fra il portatile ed il dj per suonare i propri file digitali tramite i vinili.

E’ una tecnica rivoluzionaria che soprattutto nel mondo del turntablism ha avuto effetti eccezionali. Sembrerebbe una contraddizione, visto che i turntablist sono veri e propri giocolieri del vinile, ma proprio loro hanno capito che il digitale portava una ventata incredibile di fantasia nel loro mondo.
Non è stato lo stesso nel mondo del djing classico che invece ha visto spesso il digitale come un nemico della purezza e l’idea di mettere il pulsante Sync nelle varie edizioni dei CDJ o sui software non ha aiutato a far cambiare idea agli scettici.
Usare il Sync serve fondamentalmente a evitare che tu debba prendere il tempo dei due pezzi che vuoi mescolare. Lo fa la macchina per te e questo è stato sempre visto come un inganno verso il djing.
Molti dj storici, da Jeff Mills a Q-Bert, nonostante ne facciano a meno, non hanno mai stigmatizzato l’uso del Sync perché hanno capito che i vantaggi del digitale sono superiori agli svantaggi. Usare il Sync è una scorciatoia, ma nel momento in cui puoi vedere chiaramente il BPM del pezzo che sta andando e quindi sincronizzare il pezzo dopo mettendolo allo stesso tempo che senso ha usarlo? Anche molti dj EDM hanno paura del Sync che, ad esempio, non funziona con le sole parti vocali di un brano (le famose acapella). Per cui il Sync è diventato lo spauracchio con cui demonizzare il digitale nel djing e non concentrarsi sulle vere ragioni del djing e del suo stato attuale, spesso piuttosto deludente.
Cosa vuol dire mixare? Qual’è lo scopo del dj? Se andiamo alle radici della nascita del djing e quindi ai primi anni ‘70, tutto ruotava attorno alla necessità di continuità del ritmo per chi ballava. Sui flyer del Sanctuary, dove suonava Francis Grasso, accanto all’orario e a ciò che offriva il bar, c’era la scritta “continuous music” a indicare che, rispetto a molti locali dove un brano si susseguiva all’altro dopo la sua fine, il dj creava un magma ritmico e sonoro che forniva la perfetta alchimia per i ballerini. La stessa idea è alla base del turntablism, iniziato qualche anno dopo da Dj Kool Herc e poi Grandmaster Flash.

Mescolare breaks serviva a far andare fuori di testa i ballerini/breakers. Da una parte c’erano i primi club a Manhattan, dall’altra i block parties nei parchi dei condomini del Bronx, ma lo scopo era identico. Mixare quindi significa soprattutto raccontare una storia a chi è in pista. Creare un flusso sonoro che sia avvincente e profondo.
La tecnica diventa solo un tramite con cui proporre questa storia alle persone. Senza questa capacità di raccontare, la tecnica non è nulla. Puoi usare tutti i trucchi tecnologici che vuoi, ma senza sensibilità e passione un dj set sarà sempre piatto e perdente.
E’ indubbio che la facilità nel diventare dj ha invaso il settore di tante persone improvvisate ma il problema in quel caso non è tecnico o di purezza delle radici. Prendiamo ad esempio due dj che suonano molto in giro come Sadar Bahar e Jayda G. Usano i vinili per cui sulla carta sono “puri”, ma non hanno alcuna capacità di metterli a tempo o se lo fanno, lo fanno male. Il loro problema principale non è solo la tecnica.
Anche Larry Levan non era perfetto nei suoi mix eppure aveva una grande musicalità e sensibilità nella scelta dei pezzi e soprattutto nella loro sequenza. Raramente un dj set di Sadar Bahar o Jayda G ha una sequenza musicalmente coerente: sono flow alternanti, scomposti che tradiscono uno dei principi base del djing ovvero far ballare le persone creando meno interruzioni possibili.

Il motivo per cui ci sono tanti dj che non hanno questa capacità è legato a due motivi interconnessi. Il primo è che andare a ballare è diventata una pratica legata più a una convenzione sociale che all’eccitazione di scatenarsi in pista: tramontate le novità del clubbing e poi dei rave, l’idea di passare un fine settimana ciondolandosi un’oretta dopo la cena fuori prima di andare a dormire è la prassi, per cui ogni locale oggi diventa un club, dal ristorante al bar. C’è quindi tanta necessità di dj e statisticamente la qualità si abbassa. Il fatto che ci siano pochissimi club con dj resident, ma si punti soprattutto sugli ospiti ha reso i club dei posti per mini eventi che appunto come tali vengono vissuti: poca continuità e fidelizzazione e molta frequentazione random.
Questo ci porta al secondo punto. Avere un mercato così incontrollabile porta ad investimenti ridotti sul djing, preferendo persone fidate del proprio giro consci che mediamente quello che conta è tenere la pista per il tempo necessario all’arrivo del guest o per passare la serata di fronte ad un pubblico non totalmente coinvolto.
La mia impressione quindi è che se il djing è diventato mediamente più mediocre è perché la frequentazione delle serate è diventata più mediocre in termini di partecipazione emotiva. Ci si accontenta di più. Questo lo hanno capito agenzie e promoter che hanno creato un circuito di dj che si autoalimenta, consapevoli che tutto sommato all’utilizzatore finale la qualità interessa fino a un certo punto.
E’ un po’ come con l’all you can eat per i ristoranti: l’importante è stare in un posto cool, conoscere gente e provare più varietà possibili. Manca forse la spinta a pretendere di più come avveniva una volta, è tutto più fruibile e facilmente reperibile per cui, forse, meno eccitante. Perché andare al cinema se hai Netflix?
Se è doveroso fare il punto della situazione e ammettere la nostra complicità nel successo dei set ”all you can hear” di Sadar Bahar o Jayda G è altrettanto dovuto riconoscere che ci sono ancora tanti dj che continuano a portare avanti i concetti basilari del djing, usando sia la tecnica che lo storytelling e sono certo che questo approccio sopravviverà a tutte le mode.

Andrea Benedetti