Unknown Festival ’14: Fuckin Dance in Croazia

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Cinque giorni. Un’abbuffata di elettronica tuttifrutti, mista a derive indie-rock e black.
Una sorta di ibridazione estetica tra un rave all’aperto e un villaggio turistico (fico) per musicomani e party monster.
Ma facciamo un po’ di ordine e presentiamo il setting del nostro festival dal nome misterioso: un incantevole paesino di mare in Croazia – Rovigno.
Terra rossa, spiagge scogliose come piccoli paradisi, mare cristallino e aria decisamente inebriante…Un Mali raj (piccolo paradiso, in Croato).
Questa località, da qualche anno purtroppo pesantemente “geriatrizzata”, si ritrova però paradossalmente ad ospitare un piccolo paradiso elettronico Made in England – l’Unknown Festival, alla sua seconda edizione. Il tutto all’interno dell’Amarin, ampio e chiccoso camping park poco fuori città.
Organizzato dalle illustri crew Hideaout e Warehouse Project, l’Unknown è un evento che al primo colpo ha raggiunto il sold out con dichiarato anticipo, toccando stavolta quota quattromila tickets.
Cinque palchi, di cui tre dalle sembianze alquanto “goeggianti” immersi nel verde, un posto spettacolare, con mare, pineta e piscina a portata di mano, installazioni artistiche semplici, ma di grande effetto, tra cui i lavori della “Queen of Skulls Lauren Baker; poi, performer, ballerini e creature tra il fiabesco e l’orrorifico ad intrattenere e sorprendere il pubblico in giro per il parco delle meraviglie.
Sicurezza ridotta all’osso e controlli all’entrata praticamente inesistenti. E, nonostante questo, nessun disordine e tanta energia positiva. Il ricordo ancora bello vivo di una moltitudine di sorrisi.

Purtroppo, non disponendo del bramato dono dell’ubiquità, faremo un sunto molto potpourri del tutto, senza seguire un ordine temporale diariesco e saltando anche certi artistoni, cercando però di rendervi partecipi del meglio e del peggio.
Tra donzelle scosciatissime e glitterate, e vispi, ma mai molesti, maschioni in pantaloncini (From UK with Love forse per l’80%, contro il 99,99999% dell’anno scorso), – continuamente occupati a dire Fuckin per qualsiasi cosa e Sorry per tutto il resto – addentriamoci nel merito e partiamo dai live, ospitati al Main Stage e punto forte dell’edizione di quest’anno.
Tra i momenti più epici, l’atteso concerto dei leggendari Chic capitanati da Nile Rodgers, uno dei produttori più prolifici in assoluto: più di trent’anni di storia della pop – dance, con un ensemble veramente in forma.
Nonostante il chitarrista americano fosse provato per la morte di un suo amico il giorno prima, è riuscito a coinvolgere il pubblico con una sensibilità e un carisma tale da andare oltre lo spettacolo, dando vita ad un effetto catartico collettivo potentissimo!
Una sferzata di positive vibrations – “Fuckin Yeah” – genuina e benignamente paracula al tempo stesso, grazie a pietre miliari come Everybody Dance, Star Chaser, Good Times,  Lost in Music, I Want Your Love, passando per Like a Virgin di Madonna e, ovviamente, Get Lucky dei Daft Punk – accolta da un più che sospettato delirio totale del pubblico.
Finale del concerto con super assoli jazz e un medley indiavolato di pezzoni, il pubblico invitato a ballare sul palco, gente euforica, artisti che cantavano ballavano sorridevano abbracciando tutti!
Tra le molte performance live di quest’anno, la più surreale è stata sicuramente quella di James Holden: armato di spettacolari sintetizzatori modulari, si esibisce in uno squisito duetto col batterista jazz Tom Page – lo stesso live presentato giorni fa alla preview del Robot Festival di Bologna.

Pura psichedelia, accelerata sino a toccare i 140 bpm, per poi spegnersi armoniosamente in un’atmosfera rarefatta, lenta, siderale, ipnotica e travolgente.
Perché definire questo live “surreale”? Per l’atmosfera particolare: siamo ancora nel pomeriggio  – inizio alle 17.15 – (con un’ora e un quarto di anticipo a causa delle lamentele di un campeggio vicino per i volumi alti) e appena un centinaio di presenti!
Pochissima gente imputabile sicuramente all’orario ingeneroso, oltre che all’auto-concorrenza dei Boat e Island Party (quel pomeriggio è stato allietato in barca dai due geni della consolle George Fitzgerald e Kink, mentre sull’isola Katarina hanno fatto da mattatori del dancefloor JackmasterSeth Troxler).
Il mood generale è da Paese dei Balocchi con i ragazzi a inalare gas esilarante dai palloncini per pochi secondi di sballo, e poi finire poco elegantemente per terra.
Sfruttando un’armonia sonora pazzesca grazie a James Holden che ha fatto loro da apertura, i Mount Kimbie, tra i primi a mescolare indiepop e dubstep, sono stati eccezionali, senza se e senza ma.
Con sequencer, campionatori, chitarra, sintetizzatore, drum machine e computer, durante il concerto hanno dimostrato di saper superare qualsiasi classificazione di genere, pescando sì dalla dub, ma aggiungendo generosamente ambient, gorgheggi psichedelici soul di campionamenti a singulto, un po’ alla Burial, da fiaba oscura della buonanotte. Anche quando i pezzi risultavano troppo brevi, l’equilibrio era perfetto, dannatamente godibile.
E il pubblico era attentissimo come sempre, pronto a cantare o a rimanere in rapito silenzio durante i momenti più sognanti. Mai tamarramente ululante solo al partire della cassa dritta (ogni riferimento al pubblico italiota è puramente casuale).

Kindness, la “one-man indie disco-funk band” fondata da Adam Bainbridge, hipster capellone dai natali londinesi, accompagnato da tre musicisti e due coriste molto groovie ed avvenenti, ha portato in scena un mix di white funky, blanda house – bellissima la cover di un pezzo degli Chic sulla base della mitica No Way back di Adonis! –  ed r’n’b, ma ci si poteva aspettare qualcosa di più: il disco ha convinto più del concerto, che si è sgonfiato verso la fine. Il risultato è stato comunque piacevole.
Parentesi meteo da non sottovalutare: ha piovuto molto. Non troppo e non sempre durante le serate, ma abbastanza da rendere rave-glastonburiano il tutto, inclusi inglesi scalzi, in mutande, ragazze in abiti succintissimi sguazzanti serenamente nella melma, compagna fedele di quest’anno.
Che bellezza però vedere il pubblico completamente indifferente agli acquazzoni (e cercare di imitarlo, pur indossando stivali di gomma acquistati per l’occasione e venendo da alcuni anche derisi per tutta questa adobbanza anti-pioggia): fuckin english party folks!
Dalle pozzanghere al Main Stage con amore, ed eccoci a noi con i London Grammar: la potente e soave voce della frontgirl Hannah Reid e le sonorità trip hop strumentali intinte in salsa ambient, ci hanno sedotti, pur non esaltandoci, ma il pubblico era in adorazione.
Gli scozzesi Churches – la cantante Lauren Mayberry assieme a Iain Cook e Martin Doherty – non si sono proprio fatti reggere fino alla fine: synth-pop denso di implementazioni elettroniche anni 80-90 abbastanza spompe, assolutamente non convincenti, sebbene palesemente amati dalla folla e resi un filo più sopportabili da magnetici visuals cartoon e dall’impianto cristallino.
I geniali Moderat? Il monumentale trio elettronico, nato dalla fusione tra Apparat e Modeselektor, sempre perfetto ed impeccabile.
Maestria tecnica, sensibilità ed estetica altamente suggestiva, valorizzata da Pfanderei che manovra tre schermi retroilluminati.
Il set a dire il vero è risultato più freddino del solito, appena un’ora esatta (si dice per via dell’influenza).
Grande dispiacere per l’assenza annunciata all’ultimo di Forest Swords aka Matthew Barnes, producer brit vicino ai Mount Kimbie e anch’esso ascrivibile all’area post-dubstep.

Passando alla parte più festaiola dell’Unknown, ovvero i dj set, sparsi tra gli stage Forest, Mad Ferret, l’evanescente Pool Stage (quasi sempre chiuso) e Atlantis, battiamo la fronte con le delusioni cocenti.
In primis, uno scialbissimo Erol Alkan: infinita piattezza, bassi monotoni da cichi-cichi minimal house.
Altra superstar lasciatasi andare, preceduta dal romantico finale di Mano Le Tough e il remix di Can’t Do Without You dei Caribou, cantato, ovviamente, all’unisono: Heinrik Scwharz, al Forest in versione live: zero dinamica, vocalizzi black e percussioncine afro qua e là, risultato scontato e pure un pochetto noioso, non aiutato certo dal volume bassissimo e dai bassi sin troppo presenti. Insomma, brutta sorpresa ritrovarselo per la prima volta così privo di ispirazione. Âme e Dixon, subito dopo ai piatti, hanno fatto la loro parte, senza esaltare troppo, ma con la classe che da sempre li ha contraddistinti, snocciolando house raffinata e sonorità fosche.
Gli attesissimi (e super pagati) Disclosure, grandi protagonisti dell’edizione 2013, hanno deluso al cubo: minimal house commerciale e gnichignichi di convenienza. Irriconoscibili. A casa!
Applausi invece per il portentoso Gerd Janson: il nostro frankurter ha sciorinato meraviglie techno e house, fondendole come se niente fosse con UK funky, synth pop,  r‘n’b, abbozzi industrial.
Un dj set talmente eclettico e fluido da farci battere le mani come i bambini mentre giocano, e il Forest vivo e felice come fosse l’apertura del festival.

Stesso gagliardo entusiasmo, e dire che le aspettative eran davvero basse, per Kink, che conquista l’Atlantis con un live al fulmicotone.
Pioggia scrosciante e fango hanno fatto da cornice a un’ora di puro godimento, tra acid house – folla impazzita durante It’s Time for Percolator di Cajmere – scratch, giochini col controller, e un Kink in preda a delirium tremens dance. Fantastico!
Notevole pure Ryan Elliot: un set di pura vida, tanta classic house corredata di ridenti giri di pianoforte e sferzate electro, molto nineties, assolutamente efficienti per il dancefloor e lo spirito! Una Blackwater, verso la fine del set, da brividi.
Ottima performance, e sorprendente perché molto differente dai cupi, piattini e minimali set a cui così spesso ci ha sottoposto.
Totally Enormous Extinct Dinosaurs – ragazzo londinese, classe ’86 (dal nome di battesimo ancora più lungo, se possibile) e presente la scorsa volta con un live da leccarsi i baffi –  ha deliziato i ballerini dapprima sbeffeggiandolo con un walzer viennese, poi sciogliendolo con una scanzonata Ain’t nobody di Chaka Khan, per poi farlo partire per un bel viaggetto tra house, garage e chicche pop rivisitate.
Dulcis in fundo, eccoci col finale dell’Unknown, un finale strepitoso, degno della migliore delle chiusure: inerpicati su un fangoso e debitamente oscuro colle affollatissimo, tra addobbi goa sugli alberi, palloncini, bacchette magiche al neon, tutine surreali, fanghiglia e clima piacevolmente carnevalesco, Jackmaster brindato all’ultimo giro con un pezzo incredibilmente lento, complesso ed emozionale.
Un vero maestro di cerimonie, tra poesie house dai testi commoventi e scudisciate techno degne della migliore scuola Uk, ha inebetito tutti quanti, incapaci di smettere di sgambettare e di ringraziare mentalmente. Fino alle 7.30 del mattino.
Sorry…Il the end vero e proprio? Rincasare nel silenzio e ripromettersi, guardando il mare all’orizzonte, che l’anno prossimo faremo di tutto per essere nuovamente fuckin presenti.

Divna Ivic

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