Warehouse Project Fest ’08, Manchester

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Tre mesi. Dodici settimane in cui un angolo di città si trasforma, muta, cambia forma, rivelandosi un’incredibile cartina tornasole dell’intera scena clubbing mondiale.

Trentuno notti di immersione profonda tra i mille suoni dell’EDM. Dall’house alla techno, dall’electro alla dubstep, dal French touch alla drum’n’bass, l’inverno di Manchester si legge Warehouse Project!

Dalla fine di settembre ai primi di gennaio, la città inglese ospita il gotha dell’elettronica planetaria, partendo da mostri sacri del calibro di Goldie e Jeff Mills, passando per gente come Kevin Martin e Busy P, fino ad arrivare ai big show di Justice e Chemical Brothers. Una programmazione impressionante, in grado di coprire molteplici sfumature della musica dance, con ospiti sempre di altissimo livello.

12 dicembre 2008. L’aria fredda avvolge la città già dalle prime ore del mattino e il cielo grigio coperto di nuvole non brilla certo per originalità in terra anglosassone. Sul far della sera, un vento forte spazza le strade, rendendo ancor più gelida l’aria che si respira.

A pochi passi dal centro, alcuni giovani convergono nei sotterranei della stazione centrale, in quello che durante la Seconda Guerra Mondiale era un rifugio antiaereo. Soffitti alti, volte di mattoni, luci sfocate e cunicoli polverosi: scenario rave, atmosfera underground.

Sono le dieci, ora locale. Gioiellini di casa mancuniana e portatori di un sound di matrice sperimentale, i Computer Controlled scaldano a dovere l’impianto, accompagnando l’ingresso del pubblico. Milleottocento persone la capienza del locale, prevendite sold out da due settimane.

Le lancette scorrono e cresce l’attesa.

Ore undici. Luke Vibert fa capolino in consolle, accolto da urla ed applausi. La partenza è morbida, ma la temperatura fa in fretta a salire. Il genietto inglese si esibisce con laptop e controller, intraprendendo un percorso dal forte sapore old school: electro di qualità e vecchie produzioni acid house scuotono la pista in un crescendo di ritmiche e intensità. La musica di Vibert spazia da Todd Terry a Total Groove, passando, com’è ovvio, per molti classici di casa Warp e Rephlex.

Complessivamente, il set si contraddistingue per un forte richiamo al passato: è una sorta di omaggio alla Manchester degli anni acidi, e al tempo stesso una celebrazione di due delle etichette musicali più importanti degli ultimi vent’anni.

Non è un Vibert di sperimentazione, pochi sono gli affondi nel presente e soprattutto rarissime le incursioni nel futuro; tuttavia sembra questo il suo ruolo stanotte, un raccordo ideale tra passato e presente, a scapito, forse, di quella continua esplorazione musicale che sarebbe lecito aspettarsi da un artista della sua caratura.

Mezzanotte e mezza, tocca a Squarepusher. Mr. Jenkinson si presenta sul palco armato di basso elettrico e un paio di laptop. Il suo ultimo album, Just A Souvenir, ha riscosso pareri contrastanti riuscendo a disorientare anche i fan più accaniti del produttore gallese; abbandonate definitivamente le schizofrenie elettroniche dei primi lavori, Jenkinson dà libero sfogo al proprio istinto free jazz e si concede ripetute escursioni in territori sperimentali dal retrogusto avant rock.

Il confine tra eclettismo e confusione appare labile e solamente dopo numerosi ascolti si arriva ad apprezzare l’esplorazione sonora dal quale il disco scaturisce, risultando un pregevole tentativo di indagine sul significato contemporaneo del concetto di avanguardia.

A prescindere da tutte le diatribe concettuali e in barba a chi dava Squarepusher per finito, l’esperienza live è qualcosa di travolgente. Jenkinson violenta il basso, filtrandolo con un sequencer e tempestando la pista con potenti ondate sonore.

Un abile musicista si riconosce anche dalle persone di cui si circonda, e il batterista alle sue spalle si dimostra una macchina da combattimento. Visual semplici ma di grande impatto visivo accompagnano su tre megaschermi un carosello ritmico in continua ascesa, mentre la pista ondeggia come un unico corpo.

La sfumature jazzy sono sempre presenti, ma è la corposità technoide a prevalere su tutto. Tra ritmiche spezzate e digressioni d’n’b, Jenkinson concede spazio anche a brani del penultimo album, premendo sull’acceleratore e sfociando verso derive breakcore. Per chi ancora se lo stesse chiedendo, Squarepusher è vivo, vegeto e visionario più che mai.

Sono le due ed è necessario un riassetto del palco principale. In un angolo buio, spetta ancora a Luke Vibert traghettare i presenti verso il live successivo, e da buon Caronte elabora un egregio set di transizione, anello di congiunzione ideale tra i deliri percussivi di Jenkinson e la successiva esibizione di Mark Bell.

Nel frattempo, l’immensa struttura che ospita il party offre ai partecipanti anche una Room 2, nella quale si alternano in consolle Greg Lord e Computer Controlled.

Due e trenta del mattino. Macchine e computer schierati sul bancone, è il momento di LFO, altro asso nella manica di mamma Warp. Il suo è un sound introverso, dalla fisionomia cupa e dai lineamenti marcati.

La stesura ritmica è meno frastagliata rispetto al live di Squarepusher, ma l’inglese sa avventurarsi abilmente in un set di ricerca, destreggiandosi tra una techno ruvida e digressioni acide in puro stile rave. Bell è abile nell’articolare rigide architetture IDM adagiate su riflussi melodici di stampo retrò e il risultato finale è un live ben strutturato ed incredibilmente energico.

Anche in questo caso, la risposta in pista è eccellente; il pubblico è molto variegato, ragazzi molto giovani ballano accanto a trentenni instancabili. Per la maggior parte è gente del posto, ma non mancano gli avventurieri venuti da fuori, compresi quattro ragazzi di Milano e un temerario giunto da Bari, oltre ovviamente al sottoscritto e ai miei compagni di avventura, gli indomiti genovesi Melkio e Mimmone e l’onnipresente KK luganese.

La scaletta prevede che alle tre e mezza sia Mark Broom a prendere posto in consolle. Co-fondatore della Pure Plastic e produttore attivo su numerose etichette, tra cui Zenit e 20:20 Vision, si presenta al pubblico con una techno ricca di groove. La sua esibizione, tuttavia, è molto slegata da quelle che lo hanno preceduto e rappresenta uno strappo evidente nella trama musicale tessuta durante la notte.

Quattro e trenta, ultimo rintocco, fine della festa.

Una pioggia sottile ci accompagna sulla strada di casa, mentre ripensiamo a quanto appena vissuto. Il Warehouse Project non delude le aspettative e si conferma sotto ogni punto di vista un party stellare. Un’esperienza che varrebbe la pena ripetere.

Andrea Pregel

 

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