Ci sono artisti il cui unico scopo è quello di cantare del futuro e John Foxx può esserne considerato il capostipite. A metà degli anni ‘70 ha l’oppurtunità di entrare in quello che sarebbe diventato il più grande gruppo punk di tutti i tempi, i Clash, ma per qualche ragione rimane con i suoi Tiger Lily, che poco dopo muteranno nei mitici Ultravox!.
Il 1979 segna la svolta solista della sua carriera, e nel 1980 esce Metamatic, disco manifesto della scena synth pop (ancora oggi la sua punta più alta). E’ la prima volta che un musicista britannico pubblica un album interamente elettronico.
The Shape of Things vede Dennis Leigh (questo il vero nome di John) tornare alla carica dopo l’ottimo Interplay del 2011. 14 canzoni sempre di stampo analogico ma dall’atmosfera più oscura.
I Ritmi e le melodie devono il loro sapore old school a Ben Edwards alias Benge, compositore ma soprattutto collezionista appassionato di sintetizzatori, che cuce addosso alle liriche intimiste di John un abito essenziale ma raffinato nel contrasto tra delicatezza e abrasione.
Per quanto riguarda i testi a prevalere è il carattere introspettivo con qualche riferimento autobiografico: amori e opportunità mancate, futuri possibili ancora da scoprire. Foxx è un crooner malinconico su una navicella alla deriva verso l’ignoto.
A chiudere il disco due collaborazioni bonus: Talk con il Dj Matthew Dear, il quale da il suo classico tocco dark minimal, e Where you end and i begin al fianco della dominatrice del Moog Tara Busch.
La musica elettronica una volta di più si dimostra il linguaggio migliore per raccontare ciò che ancora deve avvenire, o per rendere scintillante un passato dal quale in fin dei conti non siamo mai usciti.
Federico Spadavecchia