“Ogni disco ha una sua storia” dice Pablito El Drito nell’autopresentazione del suo ultimo album Kleptocracy. E la sua è una storia un po’ di merda: la richiesta da parte di Tein (ex raver che produce a Bristol per l’etichetta VPS) di pubblicare un vinile; dieci tracce in lavorazione, ovviamente su Game Boy (lo strumento di Pablito); un furto in casa poco prima di Natale in cui il suddetto Game Boy viene arraffato, del tutto casualmente, insieme alle cartucce su cui erano registrati i pezzi; tante bestemmie.
Certi artisti, però, sanno uscire a testa alta dalle sfighe e perseverare nella creatività: l’album esce lo stesso, su RXSTNZ, con sette tracce a bassissima fedeltà, le pre-produzioni registrate in casa, per fortuna previdentemente compresse e salvate nella mail. No mastering né post-produzione, giusto il lavoro incompiuto, sbattuto online esattamente al punto dov’era stato lasciato prima del furto. Imperfezione e incompletezza diventano volute, e non impediscono la conferma delle capacità di Pablito El Drito di mischiare sapientemente influenze techno, idm, dub ed electro per portare avanti la sua dinoccolata dance che a tratti si raddrizza.
Post-furto è invece, ovviamente, il titolo, Kleptocracy, così come la copertina, libera (e geniale, pulita, divertente) interpretazione dei fatti di Enzo Benedetto, bravo artista e designer napoletano di stanza a Milano. Ultima cosa prima della pubblicazione, infine, i titoli dei pezzi, snocciolati da Pablito in cinque minuti, com’è solito fare. Giocoliere di parole sempre pronto a far suoi stimoli esterni si è inventato chicche come “Ana Sorrenty”, visto che in quei giorni si era comprato il 7 pollici di “Figli delle stelle” e lo ascoltava ossessivamente, “Drug addicts againts fascism”, clonato da una rara quanto mitologica spilla di Vivienne Westwood, “Kebab connection”, presa per il culo dell’inchiesta giudiziaria sul traffico di droga di fine anni ’70 primi ’80 condotta dal Federal Bureau of Investigation, Pizza connection. Altri trastulli verbali completano il quadro, oltre a un’immancabile omaggio a Chris Liberator, “Dirty fuckin techno” (dal suo pezzo “Dirty fuckin house”).
Già che siamo in vena di storie ve ne racconto un’altra. Quella del giovane Andrea Giomi che, percorrendo la sua zona di Milano, Bovisa, rimase colpito dall’estetica del paesaggio: lì, una selvaggia vegetazione si riappropria di capannoni dismessi ed edifici abbandonati. Per celebrare tanta poesia, il nostro eroe realizza il bell’album Hyperborea. Quattro tracce che come i rampicanti di cui portano il nome, sviluppandosi si riempiono di dettagli, spontanei e allo stesso tempo studiatissimi. Quattro tracce rampicanti che con coerenza e qualità si attorcigliano intorno a una profonda sensibilità ambient.
Notevole l’attenzione al suono, reso ancora più cesellato dal lavoro in post-produzione dell’aiutante magico Giona Vinti.
Lieto fine, una fatina buona, Giulia Canevari, illustratrice botanica milanese emigrata in Irlanda, che si è occupata della copertina. La foto è di un’area di fabbriche dismesse occupata dal collettivo di artisti e contadini urbani Grangegorman, il disegno rappresenta le piante con cui Giomi ha intitolato i pezzi.
La pubblicazione è firmata sempre Rexistenz, etichetta indipendente molto attiva e particolarmente sul pezzo nel valorizzare vecchi e nuovi artisti di “dancefloor mutante” e elettronica sperimentale. E non solo: le copertine di Kleptocracy e Hyperborea sono solo due esempi delle belle immagini che coronano gli album di questa label. Vedere per credere, sul sito Rexistenz c’è tutta la discografia e tra l’altro tanta bella roba, volendo, in freedownload. Perché la musica è un bene comune (ma finanziarla non è una cattiva idea).
Marta A.