Dancity Festival ’14: Un Cambio di Prospettiva

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Per raccontare questa nuova edizione del Dancity Festival di Foligno abbiamo deciso di cambiare il punto di vista: non più da sotto il palco ma da sopra, attraverso gli occhi di un artista.
Shari DeLorian, uno dei protagonisti dello speciale showcase S/V/N/, si è gentilmente prestato a questo esperimento, raccontando di musica ascoltatata e emozioni provate in consolle.

La notte del 26 giugno fatico a prendere sonno.
Un po’ l’emozione di partecipare come performer al mio primo festival, un po’ la consapevolezza di dovermi svegliare alle 9 per prendere il treno, abituato come sono a star sveglio fin’oltre le 4, fatto sta che i miei occhi sono lì, sbarrati, afissare il soffitto.
Quello che so del Dancity l’ho appreso da racconti di amici, che mi hanno narrato di questa cittadina in festa, divisa tra il borgo medievale del centro e il bellissimo club Serendipity.
Un piccolo miracolo, per essere in Italia” qualcuno ha affermato.
E’ quindi con lo spirito del quattordicenne alla sua prima canna che, un po’ intorpidito e carico come un mulo, mi avvio verso la stazione il giorno successivo.
Con la compagnia di Danilo di Basemental, Jim dei Primitive Art e di Eduard Artemiev in cuffia, il viaggio scivola via veloce e d’un tratto eccoci a Foligno. Giusto il tempo di una rinfrescata e veniamo catapultati al famoso Serendipity, che non delude le mie attese, anzi, le supera.
Un club ben costruito, con tre palchi di cui uno in esterna, accogliente e funzionale. Sono inoltre piacevolmente sorpreso dalla professionalità dei membri dello staff, ai quali, da bravo fonico rompipalle, chiedo subito una riequalizzazione della stanza, la Rec Room, dove dovrò suonare all’interno dello showcase di S/V/N/. Detto-fatto, e me ne torno in albergo a prepararmi per la serata.
Doccia, cena, ed eccomi nel centro città. Prima tappa l’Auditorium, a sentire lo show di Neneh Cherry, figlia adottiva del celebre jazzista Don Cherry (e sorella della meteora Eagle-Eye), in compagnia dei Rocketnumbernine.

La location, una chiesa sconsacrata, bellissima nei suoi affreschi consumati dal tempo, mi colpisce subito, appena entrato; meno lo spettacolo, non per il suo valore artistico, indubbio e confermato dalla partecipazione entusiastica del pubblico,
quanto per la sua scarsa pertinenza con l’atmosfera aulica e di raccoglimento dell’Auditorium, uno spazio nel quale un Tim Hecker avrebbe trovato la sua naturale collocazione.
Nelle strade del borgo l’atmosfera è di reale fibrillazione. Tanta gente, la gran parte giovane, affolla i bar e i vicoli.
Fatta una certa“, come si dice a Milano, torniamo al Serendipity, per dare inizio alle danze nella nostra sala. Devo attaccare all’una e mezza, ma arrivo una buona mezzora prima per cominciare a godermi l’atmosfera.
Nello stage all’aperto hanno già cominciato a macinare cassa dritta Ben Ufo, Pangaea e Pearson Sound, membri fondatori della Hessle Audio, etichetta da anni in continua ascesa.
Finito il cocktail “Americano”, che adotto in assenza dell’a me più congeniale Negroni Sbagliato, torno nella Rec Room per dare inizio allo show.
Da qui per quasi un’ora ricordo solo litri di sudore, una birra che non riesco ad avere il tempo di agguantare tra un drop e una ripartenza, un caloroso applauso finale, un brivido freddo che ti fa capire che hai dato veramente tutto.
Dopo di me Lorenzo Senni aka Stargate, che con il suo set parto-non parto, te lo do-non te lo do, riesce a tenere perfettamente alta la tensione della sala. Quindi i Primitive Art, che già avevo avuto il piacere di “fonicare” ad una delle prime serate S/V/N/, che, cavolo, sono davvero capaci.
Beat percussivi e primordiali tra il dancefloor, la meditazione e il viaggione mi portano fino a oltre le quattro del mattino.
Chiusa la Rec Room, perso Petar Dundov, faccio per andare a sentirmi qualche cavalcata di DVS1, ma il richiamo dell’aria aperta è troppo forte e quindi torno allo stage della Hessle Audio.
I ragazzi, per quel poco che li avevo ascoltati fino a quel momento, non mi avevano del tutto convinto, poco incisivi, un po’ la solita roba alla tedesca tra techno e tech-house, non molto il mio pane.

Al mio arrivo invece attuano un ripescaggio molto godibile di certa techno/electro a cavallo tra novanta e duemila, tra Cellular Phone di Dopplereffekt e Remainings III di Adam Beyer, per intenderci.
Pian piano si fanno strada le prime luci dell’alba. Il pubblico non accenna a diminuire, l’atmosfera è fantastica. Pupille dilatate in ogni dove, ma neanche un cristiano con la presa male in cerca di rogne. Zero, solo sorrisi.
Questa, comincio ora a scoprirlo, è la vera forza del Dancity.
Guardo l’orologio e penso bene di andare a sentirmi almeno l’ultima mezz’ora di DVS1, che mi stupisce con tanta techno di matrice Detroit, e mi fa tornare ai gloriosi giorni del 2005 in cui si andava al Monegros a sentire qualcosa di bello.
Si accendono le luci. Si chiude. Il pubblico affolla l’uscita ma resta lì fuori, e così faccio anch’io, con un sacco di amici conosciuti poco prima.
Alcuni cercano di convincermi ad andare ad un fantomatico after, ma a malincuore declino.
Per fortuna, col senno di poi, visto che a quanto pare il famoso after non è mai esistito.
Il sabato, fra una cosa e l’altra, per me comincia alle cinque di pomeriggio, ora in cui esco dall’hotel per dirigermi verso Largo Frezzi, di fianco all’Auditorium, dove mi sento quasi tutto lo showcase LSC.
I ragazzi sono in gamba, fra tutti Dave Saved, che tra ritmiche electro di provenienza analog e tentazioni psichedeliche chiude un set molto interessante.
Quest’anno l’organizzazione del Dancity, col sostegno dell’associazione AtTack, ha incluso nell’evento anche installazioni di arte contemporanea e così, per non farmi mancare nulla, vado a vedermi quella di Nico Vascellari, che ha filmato, tramite l’uso di droni, nelle viscere di un inghiottitoio carsico, tra le altre cose tristemente usato, sia dai partigiani che dai nazisti, come fossa comune durante la seconda guerra mondiale.
Il video viene proiettato all’interno di una chiesa su lastre di vetro che filtrano le immagini sulle pareti della struttura, e il risultato finale è notevole.
Vedo un piccolo pezzo del set di Patten, troppo poco per farmi un’idea, dopodiché aspetto il concertone della Theo Parrish live band nell’Auditorium.
Theo non delude le attese, e con lui il suo organico da nove elementi (5 musicisti e 4 danzatori).
Il pubblico canta “Walking through the sky” e si sbraccia tra i seggiolini sulla sua house di derivazione detroitiana.
Seguono Felix Kubin, che presenta il suo progetto col batterista James Pants, e i sempre coinvolgenti Ninos Du Brasil con la loro samba techno noise.

Nel frattempo, all’aperto, su un palco ancora una volta molto ben strutturato e con accesso diretto all’Auditorium, si susseguono Dj Khalab, Clap! Clap! e lo spassoso Omar Souleyman, che ha davvero una presenza in qualche modo magnetica, soprattutto a giudicare dal delirio che lo accoglie.
Dopo di lui Gilb’r e Sotofett, che hanno però ben presto una discussione con lo staff e vengono archiviati. Li sostituisce Bambounou, che dispensa cassoni techno e qualche ammiccamento house fino a chiusura.
Il festival si chiude ancora una volta in strada, con la folla allegra e soddisfatta che defluisce lentamente nei vicoli del centro.
Il giorno dopo, in macchina, tornando a Milano, ripenso a questi due giorni; le poche cose che non mi hanno del tutto convinto annegano nel mare di bellezza di questo festival, tra il fascino delle location, gli impianti che spingono tanto (e soprattutto bene) e la semplice festosità del pubblico, che tirerebbe in mezzo anche il più preso male tra gli asociali.
In conclusione, il Dancity vince prima di tutto con la gente, dallo staff agli avventori, ed è grazie a loro che riesce a creare un clima raro nella penisola italica.
Un’atmosfera che ti rimane incollata addosso per giorni, che ti fa mettere da parte le pignolerie e che mi fa rispondere, a chi mi chiede com’è andata, in un solo modo: “E’ stata una figata“.

Shari DeLorian

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