Il primo Album dei Silver Apples: l’avanguardia specchio della New York che palpita dalle viscere dell’ inconscio.

Hanno prefigurato i Suicide; anzi sono stati a loro modo i Suicide prima degli originali

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Hanno prefigurato i Suicide; anzi sono stati a loro modo i Suicide prima degli originali. In comune avevano il fatto di essere un duo e di provenire da New York. Ma la grande differenza è stata aver trasferito l’elettronica dall’ambito colto a quello popular creando lo sposalizio fra avanguardia e musica di tendenza, almeno una decina di anni prima ed aver scelto la psichedelia per farlo.

Sono i Silver APPLES di Simeon Cox (purtroppo recentemente scomparso) e Danny Taylor. Il primo è stato il guru che ha creato lo strumento elettronico battezzato con il suo nome, cioè The Simeon, un mixer enorme composto da una selva di oscillatori, microfoni, amplificatori e quant’altro. Il secondo è stato il batterista che ha assemblato una delle più complesse macchine percussive mai concepite, con ben tredici tamburi.

L’origine della ragione sociale è dibattuta: secondo alcuni deriverebbe da una poesia di Yeats; secondo altri – io propendo per questa versione – deriverebbe da una delle opere più avanguardiste degli anni 60: Silver Apples of the Moon del compositore Morton Subotnick, uno dei primi esperimenti di musica computeristica.

Il primo omonimo album risale al 1968 ed è una pietra miliare che ha anticipato il futuro della musica: i Kraftwerk, la new wave, il techno pop, fino all’industrial. Prima di tutto però questo opera è lo specchio della loro città e non solo perché la Big Apple è sempre stata portatrice di novità sia musicali che visive (citiamo solo il MOMA ed i Velvet Underground) ma anche e soprattutto – perché è l’humus della megalopoli americana che vi traspare: quello di una città in perenne movimento stigmatizzata dalle atmosfere algide del disco. È una sinfonia che muove dalle inquietudini metropolitane, che trasuda dalle viscere di un affanno pronto a ghermire ovunque. È l’inconscio collettivo di Jung che si fa carne e sangue in un incubo di cemento ed asfalto; il tutto rimanda ad un immaginario retrofuturista e sci-fi nello spirito dell’epoca.

Il disco è la rampa di lancio che proietta la psichedelia verso la Kosmische Musik mediante le visioni stellari, la smussa e la leviga in un asciutto suono minimal per lambire certa new wave, la rende gelida per avvicinarsi ad un certo synth pop fino, la ferisce con certe rasoiate per anticipare il crudo realismo dei Suicide fino a ad anticipare l’industrial con un’inquietudine già post moderna. Il futuro è già tutto qui.

Oscillation. Si inizia subito con le potenzialità delle oscillazioni elettroniche in uno stile che anticipa il quartetto di Dusseldorf in Radioaktivität. Una percussività ritmica ed incalzante accompagna un cantato lisergico in preda al delirio da un lato; dall’altro ecco le volute spiroidali di un’elettronica primordiale ma già proiettata in avanti.

Seagreen Serenade. Una litania accompagnata anche da un flauto; quasi un minuetto per improbabili extraterrestri.

Lovefingers. Si entra nel vivo della sperimentazione con questo terzo brano; scampoli di spleen metropolitano traspaiono da queste note di elettronica grezza e spasmodica dove la voce si fa ancora più paranoica e le ritmiche traghettano verso lidi di inquietudine. Da qui ai PIL il passo è breve.

Program. Ora ci avviciniamo al mondo delle onde medie. Un giro sincopato di synth è il motore (quasi un motorik) che alimenta una voce sospesa in un vaneggiamento etereo, avulso da una realtà tangibile. Come mosse da una manopola, scorrono parole e sonorità prese da una radio a valvole: ora scampoli delle Quattro Stagioni di Vivaldi, ora una fisarmonica che intona una melodia folk da sagra paesana, ora réclames commerciali (anche in italiano): un collage dadaista-futurista fra Duchamp e Marinetti.

Velvet Cave. Forse qui è trasmessa l’inquietudine della Big Apple. Un’elettronica ridotta all’osso e spettrale dove la crudezza urbana è l’unica protagonista fino alla sua accelerazione finale.

Whirly-Bird. Dietro l’apparente aspetto scanzonato, si nasconde un proto-electro punk, quasi a smorzare l’angoscia del brano precedente. Ma è solo apparenza: lo spleen è dietro l’angolo anche qui.

Dust. La traccia più avant del lotto, quella dove l’inconscio collettivo junghiano mostra il suo volto. Tastiere vibranti ed oscure coadiuvate da un piatto suonato a guisa di gong, ci introducono in un lento incubo dove tutto pare senza via di uscita. Brano lento e cadenzato quasi un’anticipazione di umori dark e marziali alla Death in June.

Dancing Gods. Un altro pezzo da novanta intriso di tribalismo urbano; ritmo ossessivo come di danza apotropaica di nativi americani che scaturisce dai tombini di Manhattan, quasi a ricordarci una profezia di coloro che qui hanno abitato prima. Ha il potere di tenere col fiato sospeso fino all’ultimo; un rito ancestrale pagano che trasuda dai fumi cittadini e porta fra i grattacieli fin su nello spazio la religiosità arcaica degli indiani autoctoni.

Misty Mountain. Un ritorno ad un’apparente positività con un cantato rasserenante e melodico, degno finale di un album che ha disegnato le coordinate del domani.

Marco Fanciulli