51st State Festival ’17: In & Out

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IN:

Dopo il sold out delle due annate precedenti, la terza edizione del londinese 51st State Festival si è  svolta nella splendida cornice del Trent Country Park. Si è puntato a celebrare le radici della musica house attraverso il gotha della US house, della deep, del classic garage, della disco-soul, e in parte del caribbean sound.
Per le sonorità proposte, di solito, preferiamo club medio-piccoli, ma abbiamo voluto sperimentarne l’impatto col grande evento cogliendo insieme l’occasione per fare il punto su questa scena.

La logistica:

La kermesse agostana non è affatto un total outdoor. A parte un palco, tutti gli altri sono collocati all’interno di tendoni predisposti con impianti e sistemi audio pensati e calibrati in base alla struttura. Rischio pioggia quasi eliminato, almeno durante le danze.
Venuto meno il sistema di anticipo contanti tramite token, sono stati allestiti dentro l’area parecchi punti ristoro distribuiti uniformemente, dove non ci sono mai state code, grazie anche a una differenziazione del modo di pagamento con cash, c.c., chip contactless e schede pin. Dotarsi anche di street food di qualità e pensare alla distribuzione free dell’acqua – si è in Inghilterra ma è sempre estate – ha fatto la differenza.

Il pubblico e l’atmosfera festaiola:

Il popolo dei clubber va qui annoverato esclusivamente sotto la voce “elemento musicale aggiuntivo”. Partecipazione emotiva pura, dove al ballo si è unito il canto dei classici e delle hit che passavano in rassegna nei vari set, durante la maratona tra le 11 e le 22. Empatia, gioia, senso di appartenenza sono concetti che ben descrivono lo stato dell’arte festivaliero. Da segnalare la scarsissima affluenza di pubblico italiano.

Il percorso musicale:

Nonostante l’impossibilità di essere ubiqui, il time schedule delle esibizioni ha comunque agevolato la fruizione di un programma di tutto rispetto del quale abbiamo evidenziato le seguenti performance:

MIKE DUNN + TERRY HUNTER: Insieme discograficamente già nel 2013, Terry Hunter & Mike Dunn Presents House N’HD ‎– Samples, Sweet Tea & Red Bulls Vol. OnePenny Loafers & A Brick Of Rose EP, il loro djset è uno scambio alla pari, con dischi provenienti dalle più rinomate label in materia di house music con cui entrambi hanno pubblicato. A livello di personalità e nel dettare le linee guida del set emerge Hunter; d’altronde dopo aver imposto il suo sound in una una città come Chicago tutto il resto è una passeggiata. Conoscenza e perizia, cultura e amore dato e ricevuto dalla folla danzante. Poco spazio alla mera nostalgia.

JOCELYN BROWN LIVE: Seppure costretta dall’età e da una forma fisica non tonica a esibirsi da seduta, la 67enne non appena attacca con Ain’t No Mountain High Enough, Always There e Gipsy Rhythm fa immaginare al pubblico come i suoi vocalizzi possano guarire l’ipocondria o trasformare il fisico Julius Robert Oppenheimer in un fan accanito di gospel & spiritual. Brividi intensi.

THE BASEMENT BOYS vs JASPER STREET CO. LIVE: Avete presente il progetto 3 Chairs (Moodyman, Marcellus Pittman, Rick Wilhite, Theo Parrish) o il Body & Soul di Danny Krivit, François Kevorkian e Joe Claussell? Ecco, immaginate Dj Spen e Karizma riabbracciare metà dei vecchi compagni di quando erano in forze ai The Basement Boys, e proporre un djset a livelli come gli esempi citati. Poi non contenti, mettersi a dirigere e coordinate il live p.a. con quattro membri di Jasper Street Co. sul palco. Consigliamo vivamente ai promoter italiani di bookare questo show. Straordinario.

DERRICK CARTER: la sua esibizione è stata la migliore sintesi tra house ed elettronica di qualità. Particolare e ricercato.

ULTRA NATE’ LIVE: la seconda regina del festival. Possiamo ripetere quanto scritto per J. Brown. Le differenze tuttavia sono date dal tempo anagrafico, e dal fatto che diversi fan come i sottoscritti non le abbiano perdonato alcune recenti aperture/collaborazioni pop eccessivamente mainstream. Ma son sottigliezze.

MASTERS AT WORK: nomen omen. Gli anni trascorrono inesorabili per tutti ma il livello qualitativo delle loro performance in ambito house è accostabile forse a quelle di Jeff Mills in ambito techno. Insegnanti di classe sonora. Guai a pronunciare il termine passatismo.

OUT:

Security all’ingresso dell’evento:

La sicurezza esterna si è comportata in modo assolutamente severo e ligio, però mai invasiva per fortuna. D’altronde chi frequente il Regno Unito sa che occorre sempre preventivamente informarsi sui do and don’t specificati nei prohibited items e nelle important info quando viene pubblicizzato un festival.

Quasi assenza del supporto vinilico:

Lungi da rispolverare la questione su cosa sia meglio tra analogico o digitale, preme ricordare che i dischi sono stati il mezzo col quale l’house music si è propagata. Sono stati il fedele servitore e la hanno accompagnata dalle origini fino al massimo splendore. Un equilibrio tra la presenza dei supporti da utilizzare all’evento era doveroso. Mancanza grave.

Finti show:

La presenza di Dajae e Shola Ama si è limitata a un cameo di massimo paio di canzoni a testa. Troppo poco e nulla era stato specificato in merito dagli organizzatori.

Area VIP:

Nulla da eccepire a riguardo sul suo funzionamento o altro, ma sulla necessità di creare una zona ad accesso limitato in un festival come il 51st State si rimane fortemente perplessi. Il non poter entrare ci ha fatto perdere l’esibizione di Marco Passarani, unico artista presente portabandiera del tricolore.

DJ SNEAK: Le eccessive frequentazioni ibizeniche generano mostri nel suono da lui rispolverato. Tenta una mediazione mal riuscita.

TODD TERRY: Il produttore vivente propone una totale autocelebrazione fine a sé stessa delle sue produzioni senza alcun trasporto emotivo. Barone universitario.

Simone KK Deambrogi

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