Le delusioni possono essere cocenti anche quando te le aspetti. Come quella patita in piena notte tra martedì e mercoledì dai clubber londinesi, che già da tempo sapevano che il Fabric era sotto assedio, ma in fondo (neanche troppo in fondo) speravano che, alla fine di un meeting-fiume, si sarebbe trovata una soluzione. Invece niente.
Il council di Islington, l’autorità preposta a decidere del destino del club, inflessibile decreta la fine dell’attività del leggendario club di Farringdon.
Nell’era dei social networks, notizia e commenti si diffondono alla stessa velocità. Non fai in tempo a capire cosa sia realmente successo, che già te lo raccontano gli altri. Il disappunto è grande, quanto l’incredulità di chi non voleva realmente rassegnarsi al fatto che il copione era già da tempo scritto e pronto per essere eseguito. Ed è il perfetto simbolo di una situazione che non è precipitata nell’arco di una giornata, ma – sia per il Fabric che per l’intera scena londinese – decantava da parecchio tempo nel declino di una metropoli intera, “La” metropoli per eccellenza.
In questa storia si intrecciano più questioni, dalla scellerata cecità di chi vede solo il proibizionismo come risposta alle droghe, al famelico divorare dei “property developers” che stanno distruggendo l’anima di Londra, e non si accorgono di segare il ramo su cui loro stessi sono seduti.
Perché le pur dolorose e gravi perdite di due ragazzini, neppure ventenni, che nel giro di poche settimane sono morti nel club dopo aver assunto droga, hanno tutta l’aria di essere state usate come un pretesto. D’altronde, il report presentato dalla polizia contiene particolari che hanno dell’incredibile, e scivolerebbero nel grottesco se non facessero da drammatico sfondo alla chiusura arbitraria ed inutile del club. Un club che, peraltro, tutto aveva fatto tranne che opporsi frontalmente ai precedenti richiami all’ordine. Se c’è un esempio di club che ha fatto di tutto (forse anche troppo) per collaborare con le forze dell’ordine nel ridurre lo spaccio di droga, questo club è proprio il Fabric. Il fatto che non sia bastato, e che si sia giunti a chiedergli l’impossibile prima di chiuderlo, è sintomatico dell’aria che tira.
C’è un miasma letale intorno ai club di Londra, tra licenze sempre più severe e impraticabili, e affitti da capogiro. Condizioni nelle quali lavorare in maniera sostenibile diventa sempre più un miraggio.
Un paio d’anni fa, una meravigliosa inchiesta in quattro parti di Peggy Whitfield aveva catturato perfettamente la situazione, mostrando una realtà che ora ci si presenta davanti in modo impietoso.
Già prima della scorsa notte, e delle scorse settimane, era evidente la sparizione di club veri e propri, quelli con i resident DJ’s e una linea musicale chiara e definita. Ormai da tempo, qui a Londra ci accontentiamo di chiamare “clubs” quelli che in realtà sono spazi dati in concessione ogni weekend a uno o due promoters diversi. Che lottano per fare incassi e recuperare i costi. E quindi devono chiamare nomi che fanno un minimo di cassetta, e la sperimentazione del nuovo va spesso a farsi benedire. E magari non vanno neanche troppo per il sottile: se si presentano centinaia di ragazzini alla porta non li ricacciano certo indietro – sono soldi che fanno troppo comodo.
Quindi da un lato si rinuncia ad un’identità pienamente underground, e dall’altro si scopre che non basta neppure.
La legge dei property developers è inesorabile, è solo questione di “quando”, non di “se”.
C’è sempre qualche attività più profittevole di un club da ospitare negli stessi ambienti. Sempre spazio per altri appartamenti di lusso, comprati da oligarchi russi che non ci passeranno dentro neanche una giornata all’anno. A Londra i soldi stanno mangiando tutto. Il resto non conta più nulla, sono dettagli fastidiosi di cui liberarsi alla svelta.
Uno che la sa lunga di musica, di club e di Regno Unito come Kirk Degiorgio impiega poco tempo a trovare la chiave di lettura giusta: “È chiaro da tempo… Councils senza un soldo, vessati dai tagli dell’austerità e dagli sprechi, stanno finanziandosi tramite i property developers in base alla sezione 106 della legge sulla pianificazione della città e del paese, in base alla quale i developers danno soldi al council per contribuire a compensare i costi per dare assistenza ai piani dei developers stessi. Più soldi per gli stipendi dei consiglieri e più budget per la polizia…e la gente si domanda perché mai la polizia e il council abbiano chiuso il Fabric.”
Ecco perché, in fondo, ce lo aspettavamo tutti – eppure siamo incazzati. Perché il nuovo sindaco Sadiq Khan sulla rinascita della nightlife della città ci ha fatto una campagna elettorale, e forse non è azzardato dire che ci ha vinto un’elezione.
In fondo, l’esercito di chi lo ha seguito su questa promessa è stato consistente, e si aspettava – tuttora si aspetta – fatti concreti.
Khan ha finalmente inaugurato il “night tube” – col piccolo inconveniente che ora non ci sono quasi più posti dove andare di notte; ha promesso un “sindaco della notte”, che ancora non è stato nom-inato – ma la selezione è in corso, per cui potremmo presto averne uno.
Il che sembra una buona notizia: in fondo un’iniziativa del genere potrebbe essere il necessario punto di ripartenza. Ma dopo la sberla della chiusura del club più importante, l’unico degno di tal nome rimasto in attività negli ultimi 10 anni, si è creato un precedente tremendo.
Il nuovo “sindaco notturno” avrà necessariamente la strada in salita ora che c’è pochissimo da difendere e tanto da ricostruire.
Quali poteri avrà per opporsi a nuove chiusure, atteso che nel caso del Fabric il sindaco, al di là di parole di circostanza, si è chiamato fuori dicendo che il potere era tutto del council? E sarà supportato da una classe politica che dice di no ad altri, più grandi interessi di breve termine per preservare il prezioso patrimonio della vita notturna londinese?
Anche in un quadro a tinte così fosche, c’è chi non perde l’ottimismo. In un talk dello scorso gennaio a Hackney Wick (altra area in via di trasformazione per colpa dei developers), Andrew Weatherall diceva: “Questo processo non può durare per sempre. Prima o poi la gente si riprenderà i suoi spazi, la voglia di fare arte trova sempre uno sbocco.[…] Però si tratta di processi ciclici: magari tra 20-25 anni saremo di nuovo seduti ad un divano a parlare di gentrification”.
E se lo dice uno con l’esperienza e il carisma di Weatherall, che peraltro ha pagato recentemente lo scotto di questo problema sulla sua pelle, verrebbe da crederci ed essere fiduciosi.
Il problema è che, per il momento, nulla ci parla di un’inversione di tendenza. Tutti i segnali dicono che il processo è destinato a continuare, e che la notte è ancora lunga: non nel senso del tempo che resta per ballare, ma in quello più triste dei tempi bui che ci toccherà continuare a vivere.
Luca Schiavoni