Berlin Atonal ’15: Deep Shadows & Brilliant Highlights

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Sarebbe interessante chiedere a Dimitri Hegemann quali fossero le sue reali aspettative quando decise di riportare alla luce la sua creatura più oscura messa in letargo alla fine degli ’80.
A tre anni dalla miracolosa resurrezione, Atonal è andato anche oltre l’essere un punto di riferimento per gli appassionati di musica elettronica. Gli spazi immensi della Kraftwerk di Kopenicker Strasse iniziano ad essere messi a dura prova dalla massa di clubbers che si è presentata ai cancelli.
Un successo di pubblico che ha dell’incredibile dato il genere musicale proposto e una lineup meno intrigante rispetto alle edizioni precedenti. Il concetto di fondo oggi come allora è catturare la mutazione sonora in atto, frequenze non convenzionali che passano dallo stato di rumore a quello di avanguardia per diventare infine, per assuefazione, popolari (nei limiti della nicchia di riferimento). Protagonista assoluto il drone, a prescindere dall’essere ottenuto da intricati sintetizzatori o elaborate patch digitali.

Dal punto di vista organizzativo la manifestazione ha registrato modifiche sostanziali a cominciare dall’eliminazione degli incontri del primo pomeriggio eccessivamente dispersivi, preferendo proiettare un documentario al giorno alle 18 per dare il via agli show alle 20. A proposito di orari, altra caratteristica 2015 è l’estensione del programma: il mercoledì non è più soltanto serata inaugurale ma parte integrante dell’evento completa di aftershow fino al mattino ospitati all’Ohm e al Tresor (che invece continua ad esser chiuso il giovedì).
Di certo la novità più significativa è l’allestimento di un ulteriore stage al piano terra della centrale elettrica (per intenderci dove lo scorso anno c’era il 4DSound) curato dalla crew Null. Bella la stanza dedicata ai modulari.
In continuità con gli anni passati trovano spazio diverse installazioni; quella che ci ha colpito di più è opera di Pierre Bastien.

Chi viene per la prima volta all’Atonal non può che restare a bocca aperta davanti alla maestosità del progetto. Immersi nel buio di questa cattedrale di cemento si sfiora l’esperienza mistica: basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla musica. Tuttavia coloro che hanno superato l’euforia del colpo di fulmine avranno notato qualche falla nella nave.
Iniziamo la nostra desamina del festival proprio dalle cose che non ci hanno convinto a partire da un cartellone troppo sbilanciato sull’ambient noise: molte performance si sono rivelate cloni di cliché classici o prive di originalità.
Non basta munirsi di scatole analogiche per definirsi artisti, e l’arrembaggio alle sedie stile bagni a Rimini durante alcuni live ben testimonia il relativo apprezzamento. Non si capisce poi l’esigenza di richiamare così tanti attori dell’edizione 2014.
L’idea che ci siamo fatti è che l’ambizione di mettere in scena una manifestazione quanto più completa possibile si sia scontrata contro la necessità materiale di reperire i fondi necessari, pertanto la strategia seguita è stata spalmare il programma su cinque giorni infarcendolo di nomi di modo da giustificare il prezzo di un biglietto assai impegnativo per gli standard berlinesi.
Diretta conseguenza di questa politica è stata il ritrovarsi con non più di quattro act davvero eccezionali per ogni sera nonostante tutte quelle ore a disposizione. Altro piccolo intoppo sono stati i costanti ritardi sul running order.

Ma andiamo con ordine e ripartiamo da mercoledì con l’aereo che ci da giusto il tempo di mollare le valige a casa e fiondarci al festival. David Borden & The Mallard Band sono un pezzo di storia della musica elettronica (Borden fu uno dei pionieri del Minimoog) e la loro performance trasporta direttamente agli inizi dei ’70 tra melodie minimali e accordi prog. Piacevole ma non stupisce.
Più interessante l’esibizione di un altro veterano della sintesi, Max Loderbauer, accompagnato dal produttore techno polacco Jacek Sienkiewicz. Poesia elettronica come da copione.
Chi fin da subito mette in chiaro di meritare il titolo di best performer di Atonal 2015 è Alessandro Cortini. L’ex membro dei Nine Inch Nails, in campo con addirittura tre show differenti, inizia la sua marcia trionfale assieme a Lawrence English presentando Immediate Horizon. In pochi minuti il pubblico è soggiogato dal mood malinconico di lunghe suite ambient.
Miriamo un orizzonte di rovine dopo l’autodistruzione atomica dell’uomo. Rimpianti per quello che sarebbe potuto essere, e a cui si è scelto di rinunciare, ma al tempo stesso speranza per l’avvenire di chi è riuscito a sopravvivere. Toccante.
Dello showcase Subtext in sala Null citiamo un bravissimo Roly Porter come da tempo ci ha abituati. Mentre dal Tresor ci riportano di un ottimo Post Scriptum, eroe techno mascherato, noi ci godiamo il miglior dj set dell’intero evento. Antonio Marini aka Healing Force Project è una garanzia: ai controlli della navicella Ohm infiamma il dancefloor con due extended set, intervallati dai terribili Tarcar, con i quali mette in luce il lato electro-robotico dell’alleanza Berlino Detroit.
Un djset alla vecchia maniera: vinile, gran tecnica e passione. Fantasia sui piatti e sudore in pista.

Il giovedì mentre Chra continua a non piacerci ritroviamo Fis con un nuovo show A/V. Rispetto alla volta prima i visuals valorizzano meglio il sound proposto e lo spettacolo risulta abbastanza godibile senza impressionare. Superlativo invece il lavoro visivo di Tarik Barri che rende in immagini le armonie di Paul Jebanasam. Present Continuum è solido e affascinante.
La prima vera sorpresa del giorno ce la regalano Kanding Ray e Barry Burns dei Mogwai. Chitarre e modulari per un droning shoegaze intenso, da premiare ancora di più se pensiamo che erano all’esordio dal vivo.
Ma ad alzare il livello è lo svedese Varg che, con i suoi Ivory Towers, arricchisce quanto appena visto con un carico di emozioni contrastanti e si permette l’uso di voci black metal senza sbracare. Standing ovation!
Dello showcase Diagonal apprezziamo tre quarti di Not Waving e facciamo casino insieme ad AN-I e Alessandro Adriani. Peccato dover rinunciare a Sleeparchive e Dj Pete ma la pessima scelta di posizionarli all’Ohm ha fatto sì che il club si imballasse in due secondi, indi per cui di entrare manco a parlarne.

Quella di venerdì sulla carta prometteva di essere la notte più tosta e invece ha tradito in gran parte le aspettative. In main stage Ena e Mike Parker non vanno oltre un’onesta esibizione; Peder Mannerfelt dal canto suo la butta su una coloratissima psichedelia hardcore spaccando il giudizio del pubblico. Powell ripropone il proprio repertorio dal vivo che sappiamo a memoria. Tanti colpi ma pochi da KO; qualche sbavatura di troppo anche dovuta alla distanza tra il palco e la folla.
A raddrizzare le cose ci pensano Ugandan Methods ovvero Regis e Ancient Methods. Il metallo di Birmingham si abbatte severo sulla Kraftwerk, mentre estratti di film in bianco e nero imprigionano lo scorrere del tempo.
Dalla vetrina Northern Electronics scegliamo la prima parte del live di Acronym e il buon Varg in solitaria. Chi delude come già durante l’edizione 2014 è il padrone di casa: Abdulla Rashim, Lundin Oil non offre particolari spunti e le parti più gustose in cassa durano troppo poco.
Il finale è amaro perchè per la seconda volta c’è troppa gente per entrare in pista, questa volta con Regis nella gabbia del Tresor.

Sabato l’accoglienza è affidata alle atmosfere crepuscolari di Ryo Murakami e a un altro incontro con la Storia. Sul palco Tony Conrad si riunisce ai Faust per riproporre il seminale Outside the Dream Syndicate del 1973, caposaldo del minimalismo e della drone music. L’esecuzione rispecchia fedelmente l’LP scorrendo priva di sorprese.
Alessandro Cortini sale sul palco per eseguire Sonno, album uscito nel 2014 sulla Hospital Productions di Dominick Fernow. E’ il trionfo definitivo: utilizzando esclusivamente una Roland MC 202 e un delay attaccati al laptop esplora in ogni direzione il concetto di trance, partendo da quella californiana dei Savage Republic per arrivare alla Francoforte degli Air Liquide. Il tutto dilatato come pupille sotto LSD. Ciliegina sulla torta l’aftershow a cassa dritta col moniker Skarn.
Un plauso va anche a Shackleton che presenta Powerplant, spettacolo ideato appositamente per l’occasione. Percussioni a pioggia dalle densità differenti.
Shed chiude dandoci dentro tra granitica techno tedesca e breaks Uk (spostandosi sotto la M25 per il seguente djset dietro la maschera di Head High).
Nella Null area ci aspetta dopo la noia struggente di Sergie Rezza e Polar Inertia un altro live da podio. Dara Smith e Ian Eomac McDonnell, in arte Lakker, si impongono con una prova di forza notevole. Una tempesta digitale come non si vedeva da tempo, neuroni che godono nell’essere seviziati da sequenze di 0 e 1. Il loro Tundra è già tra i dischi dell’anno.

Arriviamo dunque al gran finale di questa lunga settimana di musica.
Il tema da dark landscape dei bravi WSR lascia spazio all’IDM dei Bitstream che ci appaiono completamente fuori contesto per collocazione e sound.
Ivan Pavlov ribatezzato CoH (si pronuncia son e in Russo significa sonno o sogno) è un personaggio ben conosciuto a chi bazzica Mego, Raster Noton o i Coil (con Peter Christopherson aveva dato vita ai SoiSong). La performance insieme alla designer Tina Frank è una summa delle estetiche delle label citate.
Come da tradizione la domenica è gestita da Contort la crew/etichetta di Samuel Kerridge e adesso tocca a lui presentare la sua ultima creazione: Fatal Light Attraction. Samuel innalza un’ode alla pesantezza sonora e quando scorgiamo la chitarra a tracolla il fantasma del metal appare nitido alle sue spalle. Il set è valido anche se disomogeneo in alcuni segmenti e paga una durata eccessiva (40 minuti sarebbero stati sufficienti).
Quanto al maestro supremo del dark ambient, Lustmord, restiamo colpiti soprattutto dai video.
Ben Frost scompone luci e suoni in quella che dovrebbe essere l’ultima esecuzione di Aurora.
A calare il sipario su Atonal 2015Clock DVA, che danno la precedenza al materiale nuovo spezzando il cuore dei fans desiderosi di un karaoke di hit storiche.

L’Atonal quest’anno avrebbe potuto conquistare la vetta, ma ha esitato a fare quel piccolo passo in più intimorito dalla sua stessa forza cedendo in parte alla tentazione, paradossale per un evento del genere, di ripercorrere sentieri già battuti (rispecchiando in ogni caso lo stato di saturazione della scena techno industrial).
La risposta del pubblico però è stata ampiamente superiore ad ogni più rosea previsione; questo è il risultato migliore su cui rincominciare a lavorare per il prossimo anno senza timore di avventurarsi verso l’ignoto.

Federico Spadavecchia

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