Polymorphism Pt. 4: Senyawa

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Un musicista prende posizione sul palco brandendo uno strumento a corde molto ingombrante, che può ricordare un sitar indiano ma senza cassa armonica, ricavato visibilmente da una canna di bambù. E’ scalzo, minuto, veste una maglietta stropicciata più grande di lui e porta una fasciatura in testa che ricorda quelle dei lottatori di Muhai Thai.
Non si tratta però qui di Thailandia, bensì di Indonesia, un paese di cui si parla pochissimo. Le prime due cose che vengono in mente sono Sohearto e il varano di Komodo: un lucertolone che vive in una delle tantissime isole che compongono l’arcipelago, che può arrivare a misurare fino a tre metri di lunghezza, ed è in grado di ingoiare un uomo intero. Precisazioni queste che senza scomodare Piero Angela e suo figlio, sono tese a sottolineare la specificità etnico geografica e culturale del duo, che risulta pressochè misteriosa, singolare, a fronte di una programmazione che prevede solitamente artisti che condividono un bacino di appartenenza propriamente occidentale, comunemente condiviso e denso di interscambi anche visti in prospettiva storica.

Mentre la gente si prepara all’ascolto, tra lo scompiglio generale, parte un urlo gutturale, intonato e disteso dall’angolo in fondo, che viene mantenuto lungo tutta la camminata del cantante tra le prime file, mentre si accinge a salire sul palco.
Segnale forte, teatrale, che si conclude con la presa di posizione davanti ai microfoni di quest’uomo con una giacchetta blu da persona pacata, che a quel punto si rivela anche lui essere un guerriero, annodandosi la fascia in testa. La battaglia ha inizio.
La gestualità è impressionante ed è stata questa, fondamentalmente, la sorpresa più grande dell’evento: impeto da teatro greco, assieme ad espressioni da commedia dell’arte servite su una base musicale a tratti aggressiva, a tratti solenne, dai canoni inusuali.
La sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un brandello di mondo quasi scomparso per sempre, parente allo stesso tempo degli indiani d’America, dei Maori e di Gengis Kahn, in tutta la sua veemenza.

Gli sbalzi vocali evidenziano con crudezza tecniche degne di Diamanda Galas e di Demetrio Stratos, supportate da un’estensione fuori dal comune, non si sa se prodotta della natura o dell’esercizio. Più che Kejii Haino a tratti vengono in mente i Black Sabbath, sospesi tra momenti di lirismo ed estrema drammaticità, con esplosioni di tribalismo etnico accostabili a quelle della Haka Maori, danza di guerra degli indigeni della Nuova Zelanda. L’elemento industriale tuttavia non emerge a scapito degli elementi tradizionali elaborati, come ad esempio avviene in progetti tipo quello di Cut Hands, ma rimane latente, come se fosse stato digerito, non ignorato.

La voce veniva gestita tramite due microfoni di cui uno collegato ad un delay, dunque in funzione del movimento del capo il suono poteva essere manovrato e fatto rimbalzare a piacimento sulle architravi di cemento armato della sala del Berghain, che conteneva l’evento in tutta la sua imponenza brutalista. Su una base rarefatta, delle pedaliere rock modulavano sapientemente il suono delle corde di quello strano strumento autocostruito, prima pizzicate, poi suonate con l’archetto del violoncello.
Si tratta di un artefatto equipaggiato da un lato con concorde sottili, e dall’altro con corde più grosse, per le pulsazioni di basso. Ad un certo punto si nota uno strumento orizzontale impiegato per produrre suoni profondi a tratti schioccanti. Avvicinandomi scopro che è composto da frecce piumate infilate in un morsetto collegato ad un microfono a contatto.
Sono ben appuntite, pronte per essere usate, e vengono pizzicate con le dita, a tratti percosse con delle bacchette.
Nel corso della performance si alternano altri strumenti, come quella specie di mandolino etnico che intonava dei riff quasi rock, o quel piccolo flauto strillante che duettava con la voce del cantante in momenti in cui alternava bassi cavernosi a scale altissime. Certamente una colonna sonora ideale per l’imminente terza guerra mondiale.

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