You don’t know. Quando la cultura idroponica si impadronì della techno

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2037

“Quando vivevamo nel futuro, Brooklyn era vicino a Gent, a dispetto della geografia, ma non distava poi troppo da Chicago. Successivamente quando Berlino avvicinò Detroit (operazione pianificata e voluta) la techno finalmente arrivò alle masse, e il futuro già scricchiolante svanì definitivamente nella nebbia come una vecchia banchina, lasciando il posto ad un eterno presente di revival commerciali illuminati a giorno, per meglio cullare l’approdo di una nuova generazione miope e addomesticata che aveva ormai perduto la capacità di orientarsi e di guardare oltre”.
Tratto da un inedito di Niet Signala.

Tra similitudini naturali coevolutive, citazioni, autocitazioni e gemellaggi indotti e anelati, trascuriamo per un momento la storia globale “ufficiale” wikipedica, la prossimità di Londra con Kingston, il northern soul, i rave e tutto il resto, e quei ragazzi New Beat che suonavano a 33 dischi che dovevano andare a 45 giri ballando apposta come dei manichini idioti (per chi non c’era vedere un video di Tragic Error, Confetti’s o simili per farsi un’idea), oppure viceversa quello che fanno i Jitters dall’altra parte dell’oceano accelerando le tracce per ballare in modo completamente dinoccolato. Ballare? Ma chi si ricorda cosa significa?
Oggi basta buttarsi là in mezzo e agitarsi un po’ a caso, moderatamente.

Strategie, varianti, depistaggi e caratterizzazioni, simboli di appartenenza, come lo smile ad esempio, i jeans strappati, gli anfibi o il bomber, il doppio taglio, le maglie con il cappuccio, e le t-shirt di una band, hanno subito un processo di secolarizzazione attraverso la moda. Oggigiorno qualunque tipo di persona che non ha alcunchè a vedere con una certa tal scena si può ritrovare in strada vestito così come un malandrino di fine anni 80 che veniva al tempo guardato di traverso, ma la ricerca del dettaglio portata all’eccesso tradisce l’inconsistenza dello spirito di questa generazione di smidollati chiamati hipster sui quali non vale la pena di soffermarsi. Già in quel periodo del resto l’eskimo dei rivoluzionari del ’77 veniva tranquillamente rivisitato ed indossato da un notaio senza che nessuno si ponesse alcuna domanda, mentre la Stone Island riciclava i modelli della marina russa che poteva indossare tranquillamente l’operaio italiano di provincia che ci spendeva mezzo stipendio ma anche un hooligan del West Ham di buona famiglia che andava in dritto sballato allo stadio.

Tutto questo è evidente per quanto riguarda il costume, i cui elementi risultano assolutamente spersonalizzati e svuotati di senso rispetto all’accezione originaria, ma lo è meno rispetto alla musica.
Per comprenderne il motivo basti pensare che il processo di mercificazione degli atteggiamenti subculturali rende bene se proiettato sui grandi numeri della massa, sempre moderatamente, come accade per il ballo, limando i fronzoli e tendendo all’essenziale. Qualcuno parla di minimalismo, senza sapere chi è Steve Reich.
Si tratta invece di semplificazione massificata, spacciata per minimalismo: il minimalismo è un’altra cosa. E fu così che nella techno si iniziò a parlare di minimal, verso la metà degli anni 90, quando la benzina pareva finita e si cercava di rifondare tutto partendo dalla Germania, e naturalmente dal Canada.
Dal 2000 in poi si passò da una generazione che indossava vestiti usati e comprava dischi nuovi a una generazione che comprava dischi usati e vestiti nuovi che imitavano qualcosa di vecchio, pagando di più entrambe le tipologie di articoli. Una normale t-shirt nera diventava così un accessorio minimal utile magari per travestirsi ed entrare in un club.

In questo modo la speculazione ha iniziato ad investire sia sull’usato che sul nuovo, dalla musica al costume, anche se in compenso le droghe calavano di prezzo ma anche di qualità, aumentando di varietà come tutto il resto, un po’ come le patatine sugli scaffali di un supermercato.
L’impatto del made in China iniziava a farsi sentire su tutta la linea, dagli strumenti, all’abbigliamento, alle droghe, meno che nella produzione musicale. Il settore musicale è complesso e troppo poco redditizio se non è legato ad un fenomeno da mandare in giro sul quale investire.

Le prove erano state già fatte, ed erano andate male. Derrick May cercò infatti al tempo di far entrare la techno in Cina e allevò Ben Huang, ma il governo bloccò con l’esercito un rave a ridosso della grande muraglia. L’importazione di vinile in Cina è intesa come external manufactoring ed è stratassata, dunque non conveniente, e il progetto fu abbandonato.
Certo, i grandi numeri fanno gola a tutti, ma in questo caso non era possibile farci nulla: il potere d’acquisto era ancora troppo basso, e per quanti tedeschi lavorassero in Siemens o in Wolkswagen da quelle parti, non poteva funzionare.
La Cina non si è affacciata dunque su questo mercato, ma si limita a fare da sponda per tutto il resto, fornendo la possibilità, assieme ad altri paesi, di accelerare i processi economici speculativi degli imprenditori occidentali e dei piccoli avventurieri che cercano di stare al passo, dilettandosi magari nella prodizione di microchip per controller MIDI o di scarpe di gomma con un brand a caso legato magari ad uno snowboarder.
In questa cornice che cosa è accaduto dunque alla techno, rimasta apparentemente fuori da questa globalizzazione integrale?

La techno è musica moderna popolare di massa, con una rosa di canoni fissi sui quali si gioca la variante del momento: che cosa ci sia di sperimentale in tutto questo non si sa. Sembra piuttosto che sia in atto una sorta di ipnosi collettiva.
Il meccanismo di produzione è viziato dall’apparato promozionale, dunque anzichè andare in studio a fare tracce si va a fare una compilation che deve uscire a marzo, anche se non ha senso. Per incrementare il processo di brandizzazione del dj bisogna seguire certe condizioni. Si tratta dunque prevalentemente di produzione industriale a bassa tiratura, soggetta a inflazionamento, strategie speculative operate tramite aste online, e flessione delle tempistiche: non di processi creativi.
Quelli sono terminati nel secolo scorso e persino l’industria dell’hardware musicale non fa che proporre cloni di vecchie macchine più o meno convincenti creando un effetto mitologico rinforzante avetnte per oggetto le colonne stesse del sound su cui si basa tutto l’edificio, a partire dalla bassline e le drum machines della Roland.
Un altro ruolo in tutto questo l’hanno giocato l’incremento della reperibilità delle droghe, il crollo del prezzo e della qualità, e il processo di omo-logazione, e di rimescolamento delle minoranze dovuto anche alla sopraggiunta facilità di viaggiare con l’ascesa delle compagnie low cost, che hanno indotto un appiattimento di ogni aspettativa e di slancio di ricerca di un diverso che in quanto raggiungibile o addirittura monitorato via streaming, nessuno è più in grado di immaginare, immerso in una vasca di panem et circenses dove tutto è disponibile ma più o meno uguale e spesso mediocre. Tolte o livellate le tensioni, nessun vulcano ha bisogno di eruttare in un terreno provvisto di valvole di sfogo. Non c’è bisogno di nascondersi nella cantina di Lerry Levan, o di suicidarsi in provincia, basta organizzarsi un attimo, prendere magari un volo per Berlino, o frequentare chi si può conoscere tramite i social network, che prima non c’erano (20 anni fa non c’era neppure il cellulare).

E’ così che oggi le persone che mettono in discussione più o meno consapevolmente la soggettività, legata all’ambiente, alla famiglia, alla tradizione, e cercano un orizzonte di appartenenza umano, vengono canalizzate verso un prodotto globale. Le loro aspirazioni vengono sedate mescolandosi all’edonismo transitorio di chi vuole solo dimenticare temporaneamente i propri problemi e divertirsi durante il weekend, scopare, sballarsi, per tornare poi al modello di vita conservatore dal quale provengono e civettare sui social, in modo da sfogare nell’illusione ogni strascico possibile di volontà di potenza che possa inficiare la praxis, incidere sui meccanismi di creazione e riproduzione del valore.
La roba più figa nella storia è nata tuttavia dalle tensioni, che oggi vengono camuffate, addomesticate, e trasformate in miraggi di profitto, pena l’asservimento allo standard del momento, facendo sfiatare l’anelito vitale della possibilità della creazione del nuovo.
Questo regime viene gestito e cavalcato da grossi gruppi con i loro leccaculo e da piccole pulci che portano avanti il carrozzone e contano i coperti aspettando le mance, e appena qualcosa va storto si rivolgono alla piazza cercando di passare come benefattori da proteggere.
Forse anche prima in fondo qualcuno voleva questo ma non c’erano i mezzi per farlo su questa scala, oppure si, e c’era solo più parsimonia. Fatto sta che adesso è così e trovo tuttavia questo momento storico sia un’ottima opportunità per introdurre un modello nuovo se qualcuno ha qualcosa in testa, ma in fondo ai giovani tra Youporn e sexting e cheap drugs, e videogames online che cazzo gli manca? Se c’è una guerra la perdiamo.
Forse degli immigrati con la fame di fare creeranno qualcosa di nuovo partendo da una prospettiva sana, forse si limiteranno a cadere nei miti di carta americani dell’hip hop o nel salotto di Dipré, chi lo sà. Ma piuttosto perchè in Italia è morta tutta sta gente quest’anno? E’ in atto un piano genoma del Vaticano?

E’ assodato che il maccherone dell’elettronica ora grazie alla comunicazione digitale e ad eventi di massa strapubblicizzati è diventata POP. Non c’è nessuna ricerca, nè in chi fa, nè in chi promuove, che non sia interna ad un meccanismo prossimo a quello della moda, basato su creazione, analisi gestione e sfruttamento di trend alquanto prevedibili (tra poco sentiremo parlare di EBM e di New Beat, non preoccupatevi).
La dimostrazione possiamo averla osservando i vecchi dischi, nei quali B-sides si ritrovano tracce bizzarre, magari insuonabili, ma interessanti, mentre oggi si cerca di andare sul sicuro imbroccando una bomba sul lato A o sul lato B, senza lasciar spazio a deragliamenti dall’ordine costituito. I dischi di oggi puoi anche fare a meno di giararli se non ti piace la traccia del lato A, perchè dietro, puoi star certo, non avrai NESSUNA sorpresa.

L’avanguardia infatti non si rivolge alla massa ma agli addetti ai lavori e ai pochi illuminati in grado di comprenderne le intuizioni e di creare slanci potenziali per il futuro.

La massa si nutre di roba normalizzata e pastorizzata, come la techno di oggi la cui Coca Cola formula è stata da tempo svelata. Se prima si trattava di qualcosa che riuniva un certo tipo di persone, oggi è un fenomeno di massa che si misura in numeri di utenze e fatturato.
La roba seria lo sfigato non veniva neanche a sapere che esisteva e si nutriva solo di MTV se andava bene. Oggi chiunque si permette di accederevi con un click e di commentare pure quello che è diventato il nuovo mainstream, come un utente qualsiasi che parla di calcio e si cimenta in commenti da tecnico in interminabili forum.
La techno è popular e il primo a vederci lungo e a renderla tale è stato il progetto Plus8 che scimmiottava il network internazionale delle corporations.
Oggi il suono di ogni città ha perso caratterizzazione. C’è gente che fa house Chicago a Kiev, come negli anni 60 quando in giro per il mondo imitavano i Beatles. E’ una merda? E’ figo? Poco importa per chi ha vissuto l’underground.
Se una nuova generazione non crea qualcos’altro significa che in qualche modo han fermato e circoscritto le coltivazioni idroponiche di musica elettronica. Esito della profezia del pezzo “Techno pop” dei Kraftwerk? L’IGT ha perso di significato? Forse anche il soggetto, in favore della struttura.
Dittatura del consenso? Fatto sta che per la prima volta nella storia una generazione ascolta la musica dei padri anzichè ripudiarla, ed è persino incapace di arrivare a quei livelli, per cui ricorre spesso a dei surrogati senza neppure sapere da dove viene la pianta. Buon appetito.

Niet Signala

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