No Escape Pt. 1: Storie di Futuro tradito e House Music

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La popular music è inevitabilmente legata ad un contesto socioculturale, ma ormai non è più possibile interpretarla trascurando quello macroeconomico. Forse qualcuno si sarà accorto che al passaggio dell’anno 2000 non abbiamo avuto le macchine volanti come lasciavano intendere negli anni ’70, ma abbiamo invece avuto un aumento del costo della benzina.
Le promesse fatte ad una generazione cresciuta a cassette, vinili, Moplen -che valse il Nobel per la chimica a Giulio Natta nel 1963- e animazioni giapponesi, reduce dalle leggende spaziali del ’69, si infrangevano contro una realtà ben diversa, arredata con polimeri taroccati prodotti in Cina, fatti per essere gettati il prima possibile, come qualsiasi altra cosa destinata ad uso pubblico e privato.
Il missile del progresso aveva conosciuto il muro della sostenibilità, mentre noi conoscevamo la fine dell’innocenza dell’utopia modernista.

Se per spiegare che cosa significa ciò che è accaduto musicalmente parlando nel 1988 ci limitiamo alla solita lista di nomi, e non ci relazioniamo al processo che ha poi condotto a quello che è successo poi nel ’89, se non ci rendiamo veramente conto di quando è finito il secolo breve e di che cosa è cambiato da quando abbiamo iniziato a costruire una sovrastruttura immateriale della realtà nei primi anni ’90, non stiamo comprendendo nulla di quanto è accaduto anche in campo musicale.
Stiamo parlando di un contesto pilotato legato alla “fine” della guerra fredda in generale, e dell’unificazione delle germanie in particolare, presupposto questo che ha portato alla nascita di quel mito ridondante oggi ben conosciuto ed incarnato dalla città di Berlino, catalizzatrice di possibilità reali e spesso immaginarie per molti giovani di belle speranze.
Una generazione con la terra bruciata sotto le scarpe si trova ad affrontare i vari stadi della gentrificazione, fungendo da elemento performativo e riempitivo per il momento di transizione, pronto per essere ridimensionato e regimentato, oppure lavato via con l’alta pressione una volta terminati i lavori. Del resto non potrebbe essere altrimenti: solo il diamante è per sempre, anche se nel mentre le puntine si consumano.

Ogni contesto storico ha bisogno della propria colonna sonora e l’apparato mediatico è funzionale a questo processo.

Ritorniamo alla questione dell’house music, per la quale nel 1988 c’è stata un’amplificazione voluta e pilotata di un fenomeno di nicchia già preesistente. La nascita del nuovo Eldorado e l’amplificazione consensuale dei media di massa ha fatto il resto. Le cose tuttavia non si inventano ex novo: l’oggetto di tale amplificazione era stato nel frattempo prodotto in qualche scantinato di Chicago da qualcuno che respirava lo spirito dei tempi, da qualcuno che produceva un suono adatto a quel modello di appartenenza sostitutivo alla famiglia tradizionale che doveva ancora affrontare il suo processo di normalizzazione.

Chiedendo a Robert Owens se fosse stato mai consapevole di quello che stava facendo quando produsse con Larry HeardBring down the walls” nel 1986, se avesse per caso avuto in mente il Muro di Berlino ed avesse magari voluto lanciare un qualche messaggio profetico, mi sono sentito rispondere ad occhi sgranati:
-”No, I was just connected”.
-”Connected?”
-”Connected to the universe…”

Inutile dire che che quella traccia fu ristampata e remixata negli anni ’90 e trovò subito un nuovo significato oltreoceano, sebbene originariamente si riferisse a ben altri muri, di natura sociale, vissuti in particolare nel contesto americano ed elevati in modo poetico a barriere universali da abbattere.

fine prima parte

Niet Signala

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