Polymorphism Pt. 2: Charles Cohen

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Compare sul palco questo signore agée, messo in chiaro dall’illuminazione da tavolo, con la maglietta di The Outsiders festival di Filadelfia. Veste pantaloni comodi, e si pone davanti ad una valigetta aperta, dalla quale trabocca una foresta di cavetti rossi. Improvvisamente i tweeter del Function One si iniziano a far sentire. Il Demiurgo partorisce delle sequenze puntiniste, non casuali, ma gestite da leggi metronomiche, inizialmente diradate, mai distese o spalmate su un’unica lastra.
Rispetto alla performance precedente abbiamo dunque una netta rarefazione degli atomi sonori della composizione, che non cerca quindi di avere un contatto materico, avvolgente con il pubblico, bensì si staglia in una dimensione antigravitazionale, con un inevitabile rimando forse involontario all’immaginario fantascientifico del passato.

Questo rimando è certamente un effetto dell’esperienza dell’ascolto di composizioni affini alla fantascienza, e comunque di qualunque cosa dagli anni ’50 in poi abbia collegato l’elettronica al mito del progresso, della conquista dello spazio, reale e simbolica, che ebbe un’escalation nel corso degli anni ’60. E’ proprio in quegli anni che vediamo venire alla luce i primi modulari commerciali, tra cui il Buchla appunto, di cui Cohen, attivo nel settore dagli anni ’70, possiede uno dei primi e rari modelli.

Qualcuno commenta: “E’ musica aliena”.

Certo, questo viene indubbiamente dall’esperienza del cinema di fantascienza, che utilizzava effetti speciali di natura analogica, al tempo con un uso preponderante di manipolazioni di nastro magnetico. Ricordiamo a proposito la musica krell in Forbidden Planet -un classico della fantascienza del 1956-.
La prova lampante della consistenza di questo rimando è che tutti conosciamo il suono del raggio della pistola laser anche se non ne abbiamo mai vista una, e qui no, non intendo quello delle spade di guerre stellari, ma quel tipo di sonorità classica impiegata anche in serie tv quali Star Trek. Stupisce infatti che il nostro Cohen non indossi la tutina in spugnetta dorata dell’Entreprise.

Nel corso dello svolgimento progressivo, con l’aiuto di un leggero delay, raggiunge i confini delle sonorità industrial dei Cabaret Voltaire degli esordi, mantenendo sempre e comunque un telaio ritmico mai dondolante (perchè dire “swingato”? Dondolante!). Si percepisce una maestria improvvisativa fatta di piccoli gesti calibrati, dovuta ad una simbiosi costruita attorno all’uso della macchina, maturata negli anni. La sua padronanza e capacità improvvisativa nel gestire le incertezze resiste malgrado tutto al Parkinson, purtroppo sopraggiunto di recente a tassare la vita di questo domatore di frequenze. Stiamo parlando infatti di gestione di parametri ben più complessa delle procedure di manipolazione di sequenze di campioni quantizzate.

Certamente un uomo dell’era pre-Arkanoid, che ha costruito una sua personale cosmologia refrattaria al passaggio nel nuovo millennio.

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